1) Il figlio abbandonato ha diritto di conoscere le proprie origini.
È incostituzionale la legge sull’adozione nella parte in cui esclude la possibilità di verificare se sia modificabile la volontà della madre biologica di rimanere anonima.
Nel 1963 una donna nel dare alla luce una figlia decide di
abbandonarla dichiarando di voler rimanere anonima. Nel 1969 la bimba
viene adottata e successivamente viene a conoscenza della sua adozione
solo in occasione della separazione del marito. A quel punto la donna si
rivolge al Tribunale per i minorenni di Catanzaro per conoscere la
generalità della madre biologica sottolineando che la ignoranza sulle
sue origini familiari aveva limitato le possibilità di diagnosi e cura
per gravi patologie mediche che richiedevano una anamnesi familiare.
Nella richiesta inoltrata al Tribunale la donna specifica di non essere
animata da spirito di rivendicazione nei confronti della madre che
avrebbe potuto ricevere conforto dalla figlia “così chiudendo un conto
con il passato”. Il Tribunale promuove giudizio di legittimità
costituzionale della legge sulla adozione dei minori, modificata dal
Codice della privacy, nella parte in cui esclude la possibilità di
verificare la volontà della madre biologica di continuare a restare
anonima.
Il Tribunale si rivolge alla Corte Costituzionale poiché si trova
nella difficoltà di trovare il punto di equilibrio tra il diritto del
figlio di conoscere le proprie origini e il diritto all’anonimato della
madre, ritenendo che all’anonimato della madre sia data ingiusta
prevalenza rispetto al diritto del figlio.
La Corte Costituzionale condivide il suddetto ragionamento del Tribunale, ed evidenzia che:
1) l’ordinamento dispone che, una volta fatta la scelta dell’anonimato, quest’ultima non sia più modificabile;
2) il diritto della madre all’anonimato trova il
proprio fondamento costituzionale nell’esigenza di salvaguardare madre e
neonato da qualsiasi turbamento, che sia tale da generare pericoli per
la salute psico-fisica di entrambi;
3) però anche il diritto del figlio a conoscere le
proprie origini costituisce un elemento rilevante nel sistema
costituzionale di tutela della persona;
4) dunque, ciò che costituisce malfunzionamento nel
sistema è la sua rigidità, cioè, l’irreversibilità del segreto;
5) la scelta dell’anonimato impedisce l’insorgenza di
una “genitorialità giuridica” ma è irragionevole che quella scelta
risulti definitivamente preclusiva anche sul fronte dei rapporti
relativi alla “genitorialità naturale”.
Grazie a questa sentenza il Tribunale potrà, con un procedimento che
assicuri la massima riservatezza, interpellare la madre per chiederle
se vuole uscire dall’anonimato. |
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1) Il figlio abbandonato ha diritto di conoscere le proprie origini.
Corte Costituzionale, 22 novembre 2013, n. 278.
“……Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
1.– Il Tribunale per i minorenni di Catanzaro solleva, in
riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, primo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 28,
comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una
famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei
dati personali), «nella parte in cui esclude la possibilità di
autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle
origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà
di non volere essere nominata da parte della madre biologica».
Premette il giudice a quo che una donna, nata nel 1963 e
adottata nel 1969, esponeva di essere venuta a conoscenza della sua
adozione soltanto in occasione della procedura di separazione e divorzio
dal marito e che la ignoranza delle sue origini le aveva cagionato vari
condizionamenti anche di ordine sanitario, limitando le possibilità di
diagnosi e cura per patologie (nodulo al seno e disturbi ricollegabili
forse ad una menopausa precoce) che avrebbero dovuto comportare una
anamnesi di tipo familiare. Soggiungeva la istante che non era animata
da spirito di rivendicazione nei confronti della madre biologica, la
quale avrebbe potuto ricevere conforto dalla conoscenza della figlia,
«così chiudendo un conto con il passato». Da qui, la richiesta di
conoscere le generalità della madre naturale. Il pubblico ministero
aveva espresso parere favorevole, ma il Tribunale rilevava che, a fronte
della possibilità riconosciuta all’adottato che abbia compiuto i 25
anni di accedere ad informazioni riguardanti i propri genitori
biologici, previa autorizzazione del Tribunale per i minorenni, tale
possibilità era invece esclusa dalla disposizione oggetto di
impugnativa, ove le informazioni si riferiscano alla madre che abbia
dichiarato alla nascita – come nella specie – di non voler essere
nominata, ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n.
396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento
dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15
maggio 1997, n. 127).
A proposito della violazione dell’art. 2 Cost., il Tribunale
osserva come la conoscenza delle proprie origini rappresenti un
presupposto indefettibile per,.. .
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2) Divieto di parentopoli nelle Università e nelle Aziende ospedaliere.
L’Università può adottare provvedimenti che vietino ai
professori il conferimento o il mantenimento di incarichi se nella
struttura di appartenenza hanno parenti o affini entro il quarto grado.
Il Rettore di una Università della Campania adotta un decreto
che, approvando l'atto di un Azienda ospedaliera universitaria, vieta ai
docenti/medici di ricevere o mantenere incarichi di capo dipartimento
e/o la direzione di una struttura se all'interno della struttura hanno
parenti o affini entro il quarto grado. Due docenti universitari di una
Facoltà di medicina e chirurgia, padre e figlio, impugnano al Tar
Campania il decreto del Rettore sostenendo che non è legittimo
introdurre una tale limitazione in assenza di una specifica disposizione
di legge.
Il TAR respinge la loro tesi e i ricorrenti presentano appello al
Consiglio di Stato che conferma il divieto e chiarisce che:
1) l’incompatibilità per vincolo di parentela non è
nuova nel panorama dell’ordinamento giuridico universitario, ed era già
prevista, due secoli fa, dalla legge Crispi del 1890;
2) anche nel 1948 il decreto legislativo n. 1172 ha stabilito che “il
coniuge, i parenti ed affini del professore ufficiale fino al quarto
grado incluso, non possono essere assegnati, quali assistenti, alla
cattedra di cui è titolare il professore stesso”;
la previsione, pertanto, ripete un principio presente
nell’ordinamento fin dal 1890 e del resto la Costituzione prevede,
all’art. 97, che le pubbliche amministrazioni debbano rispettare i
principi di buon andamento e di imparzialità nella gestione della cosa
pubblica. |
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2) Divieto di parentopoli nelle Università e nelle Aziende ospedaliere.
Consiglio di Stato, Sezione VI, 4 novembre 2013, n. 5284.
“…Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Gli appellanti ..., rispettivamente padre e figlio, sono docenti
presso la Facoltà di medicina e chirurgia … università degli studi di …,
inseriti nello stesso dipartimento assistenziale (DAS) di
morfopatologia.
In primo grado essi hanno impugnato il decreto del Rettore 2
agosto 2007, n. 2101, con il quale è stato approvato l'atto aziendale
dell'Azienda Ospedaliera Universitaria della seconda Università degli
Studi di …, limitatamente all'articolo 19, comma 14, nonché la
deliberazione del direttore generale 6 settembre 2007, n. 736, di presa
d'atto del citato decreto del Rettore.
Tale previsione dispone che non possono essere eletti e nominati
"Direttore del D.A.I. (dipartimenti ad attività integrata) e non si può
conservare l'incarico di direttore del D.AS.
(dipartimenti assistenziali) qualora all'interno della struttura
interessata vi siano parenti o affini fino al quarto grado incluso; la
stessa disposizione si applica per la direzione di struttura complessa e
di struttura semplice di cui ai successivo art. 26".
Il giudice adito, con la sentenza gravata, disattesa l’eccezione
di difetto di giurisdizione sollevata dall’Azienda ospedaliera e quella
per carenza di interesse attuale contrapposta dalle difese resistenti,
dopo aver precisato il regime normativo entro cui s’inquadrano l’atto
aziendale e la disposizione preclusiva impugnata, ha respinto con il
ricorso la tesi dei ricorrenti …
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3) Una vivace zuffa via mail legittima il provvedimento disciplinare della censura.
Anche nel caso di corrispondenza strettamente privata i
docenti sono obbligati ad utilizzare un linguaggio consono. Ciò è
doveroso per garantire la tutela della affidabilità della Università e
il prestigio dei docenti.
Nel 2007 a Milano ad un docente universitario viene inflitta la
sanzione disciplinare della “censura” per aver utilizzato un linguaggio
inappropriato durante un alterco via e mail con un altro docente nella
stessa Università.
Contro il decreto del Rettore che infligge la “censura”, il
professore propone ricorso al TAR Lombardia. Nel processo il docente
ammette di aver utilizzato un linguaggio “vivace” e “colorito”, ma
asserisce che le espressioni adoperate sono largamente diffuse persino
nel dibattito politico e comunque normali nell’ambito di un confronto
informale tra due colleghi, tanto più se avviene via mail nell’ambito di
una corrispondenza strettamente privata.
A tali argomentazione si oppone decisamente l’Università, a cui il TAR dà ragione, precisando che:
1) sul piano etico si era verificata una indegna zuffa via mail
2) il professore in questione aveva utilizzato un linguaggio inaccettabile e non confacente al suo ruolo;
3) il mezzo telematico usato, la casella di posta
elettronica personale, non poteva attenuare la gravità del contenuto
della mail;
4) nelle Università, il fondamento della potestà
sanzionatoria nei confronti dei docenti si rintraccia nell’esigenza di
assicurare la affidabilità sociale dell’istituzione universitaria nonché
il decoro ed il prestigio dei singoli professori;
il comportamento del docente aveva senza dubbio dato origine a un
episodio riconducibile sia all’“irregolare condotta”, sia ad una
violazione dei doveri d’ufficio. Pertanto, la sanzione della censura del
Rettore era legittima e congrua. |
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3) Una vivace zuffa via mail legittima il provvedimento disciplinare della censura.
TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 21 novembre 2013, n. 2591.
“……Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Con l’odierno ricorso il ricorrente ha impugnato, chiedendone
l’annullamento, il decreto del 31.7.2007 con cui il Rettore ….. gli ha
irrogato la sanzione disciplinare della censura.
Questi ha riassunto, anzitutto, la vicenda che ha dato abbrivio
al procedimento conclusosi con l’impugnata sanzione, caratterizzata da
un alterco verificatosi con un altro docente della medesima Università,
…., il quale aveva organizzato una manifestazione nell’ambito del
programma della Biennale di Venezia, invitando il ricorrente e i propri
studenti a parteciparvi.
Senonché, in conseguenza della comunicazione – ad avviso del
ricorrente tardiva – di annullamento della citata manifestazione a causa
del maltempo, e delle difficoltà connesse alla fissazione di una
successiva data, sarebbe iniziato uno scambio di e-mail tra i due
docenti, nell’ambito del quale il ricorrente avrebbe utilizzato (in
particolare, nella mail del 6.6.2007), “un frasario colorito non
confacente alla figura istituzionale di professore associato dello
scrivente e di professore a contratto del ricevente”, da ciò,
ulteriormente, determinandosi, “la mancata promozione della
partecipazione dei propri allievi alla iniziativa didattica promossa dal
collega, a causa del risentimento personale più o meno giustificato dal
non essere stato consultato sulla data di rinvio della manifestazione”.
A fondamento dell’impugnazione ha dedotto i seguenti motivi:
1°) violazione dell’art. 88 del RD 1592/1933 e del principio del
contraddittorio; eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto
di istruttoria;
2°) violazione dell’art. 88 del RD …
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4) Legittimo l’affido temporaneo di una bimba ad una coppia gay.
Ai fini dell’affidamento di un minore non rileva il concetto
tradizionale di “famiglia”, bensì la sussistenza di una situazione
paragonabile al contesto familiare sotto il profilo accuditivo e di
tutela del minore. Di conseguenza, l’affido temporaneo può essere
disposto anche in favore di una coppia omosessuale.
Una minore è affidata in via temporanea ad una coppia omosessuale, composta da due individui di sesso maschile.
Trascorsi alcuni mesi, al Giudice tutelare perviene richiesta di rendere definitivo il provvedimento di affido.
Il Giudice accoglie la richiesta, argomentando che:
1) le caratteristiche fondamentali dell’istituto
dell’affido consensuale eterofamiliare temporaneo dei minori e degli
adolescenti sono: a) l’eccezionalità e la temporaneità, b) il consenso
formale di chi esercita la potestà, c) il mantenimento dei rapporti con i
genitori, proprio in vista del rientro nella famiglia d’origine, d)
l’inserimento del minore in una “famiglia” con cui non ha rapporti di
parentela (o, comunque, oltre il 4° grado);
2) esaminando la normativa in materia (legge 184/ 1983)
si riscontra che il concetto di “famiglia” non trova una precisa
definizione, ma si riferisce ad un “contesto”, per così dire, in grado
di assicurare al minore il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le
relazioni affettive di cui ha bisogno;
3) considerato che vi è la mancanza di qualunque
richiamo al matrimonio quale vincolo che unisca gli affidatari, che
l’affido è consentito anche ai singoli, che, infine, in caso di adozione
il legislatore ha esplicitamente richiesto che gli adottanti siano
uniti in matrimonio, si deve ragionevolmente dedurre che la lacuna in
questione sia frutto di una precisa scelta del legislatore, che ha
voluto ampliare le possibilità di affido temporaneo dei minori;
d’altronde, la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che “in
assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza, costituisce mero
pregiudizio la convinzione che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo
del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia
omosessuale”. |
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4) Legittimo l’affido temporaneo di una bimba ad una coppia gay
Tribunale di Parma, Decreto n. 74546 del 2 luglio/18 novembre 2013.
“…Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Il 12 aprile 2013 perveniva a questo Ufficio la richiesta di
rendere esecutivo il provvedimento di affido eterofamiliare dal 18
febbraio 2013 al 31 dicembre 2013 in favore della minore …., nata il …
in .., disposto il 21 febbraio 2013 dal Comune di …– Settore Welfare e
Famiglia e sottoscritto dal dirigente dello stesso dr. ...., dalla quale
risultava che la minore predetta era stata affidata alla famiglia
composta da …., nato il…. a …), e ..., nato il….a …..
Il 21 giugno 2013 il Comune di … – Servizio Minori produceva
documentazione integrativa concernente il positivo esito del vaglio
condotto dal competente Servizio Sociale circa l’idoneità della coppia
composta da …. e …. a rivestire il ruolo di famiglia affidataria per la
minore, all’esito di un percorso intrapreso il 5 aprile 2011 e
consistito in nove colloqui e una visita domiciliare [1].
La peculiarità del caso concreto – a quanto consta a questo
Giudice connotato da assoluta novità – rende opportuno ricostruire il
quadro normativo di riferimento, al fine di individuare l’esatto
significato del termine “famiglia” nell’ambito dell’ordinamento vigente,
con specifico riferimento alla disciplina dell’affido consensuale
eterofamiliare temporaneo dei minori e degli adolescenti, istituto che,
come noto, non è preordinato all’adozione, ma al perseguimento del
benessere dei bambini, assicurando a quelli in gravi difficoltà un
contesto di cura amorevole da parte di persone a ciò idonee. Le
caratteristiche fondamentali dell’istituto in commento sono, infatti:
l’eccezionalità e la temporaneità; il consenso formalizzato degli
esercenti la potestà; il mantenimento dei rapporti con i genitori in
previsione del rientro nella famiglia d’origine; l’inserimento del
minore viene in una “famiglia” che non ha con lui legami di parentela
(oppure oltre il 4° grado).
Viene dunque in rilievo, a livello di normativa primaria, …
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5) Fisco. Dichiarazione infedele. Verifica tributaria e penale.
Nel processo penale per reati fiscali il giudice deve dare
prevalenza ai “fatti” rispetto ai dati formali su cui si appunta
l’indagine tributaria. Può anche darsi, quindi, che la verifica in sede
penale contrasti con quella in sede tributaria.
Un contribuente è condannato a pagare un’ingente somma al Fisco per
il reato di Dichiarazione infedele, perché, al fine di evadere le
imposte sui redditi e l’IVA, ha indicato nelle dichiarazioni per un dato
anno elementi attivi per importi inferiori a quelli effettivi.
Il suo ricorso contro l’accertamento dell’Agenzia delle entrate è
respinto, sia in primo grado, sia in appello, così ricorre in
Cassazione.
A sostegno della tesi difensiva, il contribuente afferma l’erronea
modalità di accertamento dell’agenzia delle entrate che si è basata su
presunzioni semplici. La Corte di Cassazione non è dello stesso avviso, e
chiarisce che:
1) la verifica a cui è chiamato il giudice penale può
sovrapporsi ed anche confliggere con quella operata dal giudice
tributario;
2) in sede penale deve darsi prevalenza ai fatti
rispetto ai criteri di natura formale che caratterizzano invece
l’ordinamento tributario;
3) nel caso in esame l’accertamento dell’Agenzia delle
entrate è stato condotto in base a una norma che prevede che il reddito
sia rettificato nel caso di incompletezza, falsità o inesattezza degli
elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulti
dall’ispezione delle scritture contabili. Oppure che risulti dal
controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni
contabili;
4) ove sussistano i suddetti presupposti, l’esistenza
di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è
desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano
gravi, precisi e concordanti;
la verifica in sede penale può quindi contrastare con i risultati di
quella condotta in sede tributaria e nel caso in esame il contribuente è
stato condannato per evasione fiscale. |
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5) Fisco. Dichiarazione infedele. Verifica tributaria e penale
Corte di Cassazione, Sez. III penale, 18 novembre 2013, n. 46165.
“…Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Con sentenza del 21 novembre 2012, la Corte d’appello di Brescia
ha confermato la sentenza del Tribunale di Cremona del 17 febbraio 2011,
con la quale l’imputato era stato condannato, per il reato di cui
all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, limitatamente all’importo di €
287.596,90 di maggiore imponibile, perché, al fine di evadere le imposte
sui redditi e sul valore aggiunto, indicava nelle dichiarazioni annuali
per l’anno 2004 elementi attivi per un ammontare inferiore a quello
effettivo.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Si deduce, in primo luogo, l’erronea applicazione della
disposizione incriminatrice, in relazione all’art. 39, secondo comma,
lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 55, terzo comma, del
d.P.R. n. 633 del 1972.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe errato nel
ritenere che l’accertamento della Agenzia delle entrate fosse stato
effettuato in base all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, perché non
avrebbe tenuto conto che nell’avviso di accertamento si faceva
riferimento all’art. 39, secondo comma, lettera d), del d.P.R. n. 600
del 1973. Si tratterebbe di un profilo rilevante perché la verifica di
cui all’art. 39, secondo comma, lettera d), sarebbe stata condotta sulla
base di presunzioni semplici, prive dei requisiti di gravità,
precisione e concordanza richiesti dal primo comma dello stesso
articolo. La difesa prosegue evidenziando che, contrariamente a quanto
ritenuto dalla Corte territoriale, il fatto che la riscossione di alcuni
affitti per...
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art direction: eticrea
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