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lunedì 14 agosto 2017

Proposta Gabbanelli agosto 2016.

MILENA GABBANELLI  scriveva in questi giorni dello scorso anno:  

"Migranti: una proposta"

Le tabelle del Viminale sono perfette: quanti sbarcano, dove si accampano, quanti smistati per regione, da quali Paesi arrivano. Segue il ciclico appello: «Ogni sindaco faccia la sua parte». Ma «quale» parte, e fino a quando? Ogni paese europeo si gestisce i migranti che ha in casa, e chiuse le rotte, di ricollocamenti non se ne parla più. Per Bruxelles il problema è uno solo: il ricatto della Turchia. Se Erdogan spingerà i 3 milioni di siriani in Grecia, si sposterà il finanziamento da Ankara ad Atene. Ipotesi improbabile perché i 6 miliardi dell’accordo fanno comodo al premier turco, e perché i siriani non hanno nessuna voglia di rimettersi per strada verso le tende di Idomeni, Salonicco o il Pireo; da marzo hanno ottenuto il permesso di lavoro, e l’integrazione in Turchia è meno complessa. Nella malaugurata ipotesi di un’espulsione di massa, la Grecia sarà travolta da un disastro umanitario che, senza un colossale intervento militare, si sfogherà, almeno in parte, via mare verso l’unico paese impossibile da blindare: l’Italia. Infatti qui gli sbarchi continuano, e i numeri sono cresciuti rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti: arrivano dall’Africa sub sahariana, ma anche dalla Siria, Iraq, Pakistan, Palestina, 2.392 sono di nazionalità sconosciuta, i minori non accompagnati 13.000. Siria a parte, guardiamo la mappa dei paesi devastati da instabilità, guerre civili, terrorismo e persecuzioni, e avremo un’idea di quel che si sta muovendo alle nostre spalle. Questi sono i dati ufficiali al 31 dicembre 2015: 3 milioni e mezzo in fuga dall’Iraq, 2 milioni e mezzo dall’Afghanistan, 262.000 dal Pakistan, 1 milione dalla Somalia, 750.000 dal Sudan, 450.000 dalla Repubblica Centroafricana, 450.000 sfollati libici, 535.000 dal Congo, 5.000 persone al mese dall’Eritrea. Dove andranno nessuno lo sa, ma è probabile che almeno una parte punti all’Europa, e noi siamo i più esposti. Abbiamo 3mila centri di accoglienza temporanea (Cas), 13 centri governativi (Cara), 430 centri Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati gestito da enti locali). Oggi ospitano complessivamente 144.000 migranti. Il sistema ci è costato, nel 2015, 1 miliardo e cento, ma non c’è trasparenza sugli affidamenti, sui finanziamenti, sul rispetto degli standard di erogazione dei servizi previsti da convenzioni e capitolati d’appalto. Il progetto del governo, sulla carta, dovrebbe essere quello dell’accoglienza diffusa, cioè i piccoli centri da 10/20 posti, gestiti dai comuni, che però oggi accolgono circa 20.000 persone. Il resto sono centri straordinari dati in emergenza e gestiti dalle prefetture, dove non si fa né formazione né integrazione. Ogni sbarco corposo è «un’emergenza» che le Prefetture affrontano reclutando alberghi (a cui si garantisce la clientela), invocando l’intervento delle parrocchie e dei comuni, allestendo tende o container improvvisati in spazi inadeguati. La gestione è affidata a consorzi, cooperative, associazioni, spesso senza gara, dove si paga, chiavi in mano, pieno per vuoto. Che l’immigrazione sia un grande affare per la criminalità è ormai un fatto accertato. Come potrebbe diventare un’opportunità trovando una soluzione gestibile, continua a non essere una priorità né per Bruxelles, né per il nostro governo. Dall’inizio di quest’anno dall’Italia non se ne possono più andare, e quando ci riescono, ce li rimandano indietro. Inoltre: dove sono finiti invece i 170.000 sbarcati nel 2014, e i 153.000 del 2015? In parte hanno preso la strada del nord Europa senza farsi identificare, in parte inseriti nel circuito dell’accoglienza, altri vagano per le nostre città e i più desolati paesini. Diventano vittime del caporalato, vendono calzini per strada, chiedono elemosina, si contendono un posto di abusivo nei parcheggi, o peggio, finiscono nel giro dello spaccio. E’ comprensibile che questi scenari preoccupino la popolazione, e alimentino paure nelle quali affonda i denti la strumentalizzazione politica più bieca, con il rischio di rivolte sociali. Di fatto siamo l’hotspot d’Europa, ed è chiaro che il sistema non può più reggersi sulla solidarietà. E allora, ipotizziamo un piano concreto che possa trasformare il dramma in opportunità, e proviamo a costruire un pragmatico progetto d’impresa, da portare sul tavolo a Bruxelles, in cambio di finanziamenti, dell’impegno alla ripartizione delle quote, e della supervisione di un commissario europeo. Cominciamo con i richiedenti asilo, che abbiamo l’obbligo di accogliere: la mano pubblica deve riprendersi l’organizzazione, il controllo e la gestione dell’intera filiera, utilizzando cooperative e associazioni per svolgere solo funzioni di supporto. Ipotizzando l’accoglienza di 200.000 persone l’anno occorre identificare 400 luoghi, che possano ospitare mediamente 500 persone. Gli ampi spazi pubblici inutilizzati ci sono: gli ex ospedali, i resort sequestrati alle mafie, e soprattutto le ex caserme. Ne abbiamo in tutto il paese, dalla Sicilia al Friuli, alcune agibili subito, altre in parte, alcune da adeguare del tutto, facendo i lavori con procedura d’urgenza. Sono luoghi adatti perché gli spazi enormi consentono di modulare l’esigenza di abitabilità con le attività da svolgere all’interno: corsi di lingua, di educazione alle regole europee e formazione per 8 ore al giorno. Inoltre asili per i bambini e aule scolastiche per i minori. Occorre definire regole inderogabili: obbligo di frequenza, pena il ritardo nella collocazione definitiva, accettazione di un piano transitorio di permanenza quantificabile in 6 mesi; periodo di tempo necessario per il perfezionamento dell’identificazione, l’espletamento delle pratiche per il ricollocamento, e la definizione del curriculum di ogni rifugiato: dal titolo di studio, a quale mestiere sa fare. Per fare tutto questo occorrerà assumere a tempo pieno 22.000 professionisti (fra insegnanti, formatori, psicologi, medici, addetti). Costo molto approssimativo per la messa in abitabilità dei luoghi: 2 miliardi di euro. Gli stipendi del personale e il mantenimento di strutture e ospiti (vitto, luce, acqua, riscaldamento) sono invece quantificabili in 2 miliardi e 200 milioni l’anno. Sono calcoli ovviamente approssimativi, anche se fatti con la consulenza di professionisti del settore, e quindi sono da considerare un ordine di grandezza da cui partire. I vantaggi: percezione di maggiore sicurezza, migliore disponibilità sociale perché il sistema organizzativo oltre a fornire strumenti reali per una integrazione, porta lavoro a personale italiano e rimette in moto l’edilizia. Con il risultato di lasciare, quando questo ciclo si sarà concluso, un patrimonio valorizzato (mentre oggi è in costante degrado). Se mettessimo in piedi il progetto organizzato in questa maniera i nostri sindaci sarebbero più disponibili ad accompagnare il rifugiato all’inserimento nel territorio? Quelli consultati, a cominciare dal sindaco di Milano Giuseppe Sala, su cui pesano i numeri più consistenti, la risposta è stata: «Magari! Oggi ricevo 30 euro al giorno a persona per trovare un posto dove farla dormire, ma poi? I flussi sono in aumento, molti hanno un livello basso di istruzione, non sappiamo cosa sanno fare. Sarebbe tutto più gestibile se ci arrivassero con uno screening fatto e un minimo di formazione». I paesi membri invece si prenderebbero la loro quota, già identificata e formata? I delegati all’immigrazione di Svezia, Norvegia e Germania hanno risposto che a queste condizioni, e con il coinvolgimento di tutti i paesi, la disponibilità ci sarebbe. Abbiamo infine sottoposto il progetto al Commissario europeo Avramopoulos lo scorso maggio, e alla domanda «l’Europa potrebbe finanziarlo e contestualmente imporre la ridistribuzione?», la risposta è stata questa: «Se l’Italia mettesse in piedi un piano nazionale complessivo, e il governo lo facesse suo presentandolo agli organi europei competenti, sarebbe senz’altro recepito positivamente. I soldi ci sono. Per quel che riguarda la rilocazione di chi è stato identificato come avente diritto alla protezione internazionale, non ci sono scuse, anche se ci sono resistenze, le decisioni sono vincolanti». Quindi perché non provare a percorrere questa strada? Altro discorso per il migrante economico. La posizione dell’Italia e dell’Europa è quella del rimpatrio e il piano è orientato all’aiuto attraverso lo sviluppo di economie nei paesi d’origine. Una prospettiva giusta, che richiede tempi lunghi, ma intanto come si affronta quel 60% di sbarchi che non rientra nella categoria dei richiedenti asilo? Con un decreto di espulsione. Se ne dovrebbero andare volontariamente, ma non lo fanno perché non hanno documenti validi, né soldi, né tantomeno voglia. Diventano clandestini, e quando li trovano finiscono nei Cie (centri di identificazione ed espulsione). Nel 2015 su 34mila irregolari è stato rimpatriato forzatamente solo il 46%. Costo: 35 milioni di euro. La partita dei rimpatri si contratta attraverso accordi con i paesi d’origine, non facili e molto onerosi, e anche di questo non dovremmo farci carico da soli. Mentre quello che possiamo fare è sveltire la macchina giudiziaria. Il problema è che dentro a questo 60% c’è un numero imprecisato di cittadini che non provengono da Paesi in guerra, ma fuggono da persecuzioni e chiedono una protezione. E se questa non viene concessa, intasano i tribunali con i ricorsi. Ci vogliono in media 2 anni per stabilire chi deve restare e chi no, quando sarebbe sufficiente qualche mese; ma ci vorrebbero 40 giudici dedicati solo a questo, e il costo è quantificabile in 3 milioni di euro l’anno. Questo è lo scenario che ci attenderà per almeno un decennio, ma se c’è la volontà politica si affronta, con la ricaduta di arricchire il Paese, invece di impoverirlo. Ben sapendo, poi, che il compito dei governi è quello di evitare i conflitti, non di crearli, mentre quello delle Nazioni Unite è di essere protagonista vero, non solo portatore di buone intenzioni.

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