Emidio Novi su
08-07-2014
Ottaviano Del Turco è un uomo che sa sorridere. Vive una delle più incredibili vicende giudiziarie degli ultimi anni. Eppure non smette di scorgere nelle cose il loro verso paradossale. Solo così può accarezzare la vita che a un certo punto lo ha sottoposto a una prova terribile. "Nessuno può avere idea di cosa sia un processo come il mio, se non ci sta dentro. Solo da dentro si vedono tutti i dettagli di una tortura processuale come quella che ho vissuto, anche quelli piccolissimi". Non sono stati anni da incorniciare, questi ultimi sei, per Del Turco.
Ma l'ex numero due della Cgil ("l'immagine a cui tengo di più"), che è stato anche segretario del Psi, parlamentare antimafia, ministro e poi presidente dell'Abruzzo, questo signore contro il quale sei anni fa ci si è avventati con gli artigli della ferocia forcaiola più cieca, non smette di amare i suoi quadri, di passeggiare per la sua Collelongo, di gustarsi la solitudine che è anche benefico distacco.
Né gli costa fatica raccontare i dettagli anche paradossali e comici della sua odissea processuale. Un pezzetto di questa storia è riemerso in tempi recenti: qualche settimana fa (“il Garantista” ne ha parlato domenica scorsa), i PM di Chieti hanno spiegato ai giudici dov'era andato a finire il "tesoro" dell'uomo che accusa Del Turco: Vincenzo Angelini, ex re delle cliniche abruzzesi, la cosiddetta gola profonda che ha raccontato la storia delle tangenti scambiate con sacchi di mele, un uomo accusato di bancarotta per cifre colossali, avrebbe trasferito la bellezza di 100 milioni di euro alle Antille Olandesi.
La Procura spiega di aver trovato le "contabili", cioè le prove certe. Era tutto nell'hard disk di un commercialista, un certo Marco Rovella. Un uomo così pieno di sorprese, Angelini, uno che secondo l'inchiesta di Chieti avrebbe fatto fallire un impero di cliniche private per mettere da parte 100 milioni ai Caraibi, ha goduto di una considerazione assoluta da parte dei giudici di Pescara. Gli hanno creduto e hanno condannato Del Turco in primo grado a 9 anni e 6 mesi. "Quasi come Tortora", fa notare l'ex governatore, uno dei pochi passaggi in cui la voce si fa un po' più arrabbiata.
Senta Onorevole, è chiaro che non ci sono certezze. Non ce ne sono della sua colpevolezza, non possiamo dire di averne neppure del supposto magheggio caraibico di Angelini. Ma le è mai passato per la testa, in questi anni, che dietro le accuse potesse nascondersi un presunto tesoro?
È stato evidente fin dall'inizio.
Evidente a chi?
A me che gli avevo fatto le leggi contro.
Quali leggi?
Prima che diventassi presidente della Regione, Angelini, proprietario di un gruppo come Villa Pini, stracolmo di convenzioni, riceveva i rimborsi a piè di lista. Diceva di aver erogato prestazioni per un determinato costo, e la Regione pagava.
Poi cos'è successo?
Che le delibere della mia giunta e le leggi approvate in Consiglio regionale hanno messo fine a quella follia. Ed evidentemente gli hanno creato dei problemi.
L'ha accusata per questo?
No. Angelini è stato passato al setaccio dal Nas dei carabinieri alcuni mesi prima che io fossi arrestato. Ai PM l'Arma ha detto: questo signore andrebbe arrestato. Nel momento in cui la Procura di Pescara comincia a mettere sotto torchio Angelini, una perizia accerta che 60 milioni del suo patrimonio sono già stati trasferiti dai conti delle cliniche ad altre imprecisate destinazioni.
Cosa gli succede?
Il procuratore capo Trifuoggi gli dice che tutto appare incomprensibile se non lo si ricollega a un meccanismo esiziale di concussione. Gli dice: lei questi soldi li deve accantonare per la politica, è l'unica spiegazione.
E lì Angelini fa il suo nome.
Macché. Dichiara di non aver mai pagato nessuno. È tutto negli atti processuali, questo scambio tra la Procura e Angelini. Trifuoggi insiste. Cerca di far capire ad Angelini che se lui fa i nomi di chi lo ha concusso rende un grande servizio alla Giustizia.
E quindi lui fa i nomi degli amministratori.
E nemmeno. Se ne torna a casa sua. Parla con il suo avvocato, evidentemente. Dopo 8 giorni si ripresenta in Procura e dice: sono stato concusso. Ho pagato tangenti. Solo a Del Turco ho dato oltre 5 milioni e mezzo.
Questo porta al suo arresto, il 14 luglio del 2008.
Il giorno dopo avremmo approvato una circolare, già pronta. Avrebbe reso ancora più stringenti i criteri per pagare le strutture convenzionate con la sanità regionale.
Quanto tempo ha passato in carcere?
Ci sono stato fino al 28 luglio. Poi sono passato ai domiciliari. Quindi alla fase più umiliante, quella dell'obbligo di dimora. Un confino. Quando avevo bisogno di muovermi dalla mia Collelongo per andare a Roma dovevo chiedere un permesso al gip. Poi avevo bisogno di un'autorizzazione anche per tornare a Collelongo. Di fatto sul Raccordo anulare ero una specie di evaso.
Adesso è in attesa dell'Appello. Secondo il suo avvocato difficilmente se ne parlerà prima del 2015. Nel frattempo è libero.
Ma preferisco confinarmi da solo, a questo punto, a casa mia a Collelongo. Faccio una passeggiata la mattina, prendo un caffè. Una partitella a carte. Poi torno, cerco di non stancarmi. Ho un linfoma. Un tumore non dei più aggressivi, per fortuna. Da alcuni anni sono in cura dal professor Mandelli. E ho smesso di tenere la testa sempre nelle carte del processo.
All'inizio ha studiato come se avesse dovuto difendersi da solo.
Poi i medici mi hanno detto: quello che le hanno fatto passare ha colpito le sue cellule. È come se i segni della sofferenza si vedessero al microscopio, capisce?
Cosa si aspetta dal processo di Appello?
L'assoluzione. E basta. Non voglio le scuse. So che proprio “il Garantista” ha pubblicato le scuse di Marmo alla famiglia Tortora. Non mi interessano. Le scuse le chiedono i magistrati che smettono di fare i magistrati.
Alla fine lei non è stato condannato per concussione.
No. Dopo l'escussione di 140 prove testimoniali tutte chiamate a suffragare la tesi della concussione, all'ultimo minuto è cambiato il capo d'imputazione. Senza che tale ipotesi fosse mai stata avvalorata da un solo testimone. Questo naturalmente è tra i motivi dell'istanza di Appello.
Peseranno anche i 100 milioni trovati alle Antille che, secondo la Procura di Chieti, costituirebbero il tesoro di Angelini?
Possono rafforzare il quadro già abbastanza chiaro emerso nel primo grado. Ma non saranno decisivi.
Cosa ha pensato di fronte alla notizia dei 100 milioni?
Che probabilmente ce ne sono altri. Angelini tende ad accumulare soldi. E ne pretende sempre, anche quando non ne ha diritto.
Cosa intende dire?
Le faccio un altro esempio. Vincenzo Angelini è uno che compra di tutto. A casa aveva centinaia di paia di scarpe, centinaia di magliette Lacoste tutte dello stesso colore. È stato intercettato dai vigili urbani mentre cercava di portar via da casa scatoloni pieni di cose così. Alcuni antiquari romani possono raccontare di aver venduto ad Angelini mobili di grandissimo pregio e valore che non sono mai stati ritirati. Li ha comprati, li ha pagati, ma li lascia lì. A deperire nei depositi. Nelle udienze del processo è capitato che Angelini cominciasse a urlare senza motivo, o che girasse i tacchi e se ne andasse all'improvviso. Tutti questi episodi non hanno mai messo in discussione la sua attendibilità.
Anche lei ama i quadri.
Me li vendo. Quelli che ho se ne vanno, uno dopo l'altro. Li vendo per vivere, per pagare gli avvocati. Ho speso decine di migliaia di euro, per difendermi. A casa avevo, ne ho ancora qualcuna, opere di grandi maestri, di alcuni di loro sono stato amico. La pittura per me è tutto. Ma devo vendere i quadri. Ne ho venduti di Schifano, di Guttuso.
Lei è stato tra i fondatori del Pd. Da quel partito le arrivano attestati di solidarietà?
Quasi mai. Tra un fragile impianto accusatorio e un vecchio militante hanno scelto la Procura.
Perché? Paura?
Sì, paura. Ne sono convinto.
Perché le è successo tutto questo?
Perché ho tagliato i costi della sanità. Perché chi ha governato la Regione dopo di me ha potuto completare il rientro dal dissesto grazie alle mie leggi. Perché mi sono messo contro i potenti. Toto, per esempio, il fondatore di Air One. Gestiva in società con Benetton la Autostrada dei Parchi, la Pescara-Roma. Una sera con una nevicata terribile tralasciano di spargere il sale. Muoiono cinque persone, altre centinaia di abruzzesi a pochi chilometri da Roma trovano i caselli chiusi e sono costretti a tornare indietro. Ha trattato quel manto stradale come se fosse la robba di Mazzarò. Lo attaccai con grande durezza.
Qual è il limite più grave della giustizia italiana?
Nel 1993 i processi di Mani pulite hanno messo in moto la valanga che avrebbe travolto il sistema delle garanzie processuali. Ma non ci metto più la testa. Devo avere rispetto per la mia salute, ora.
(da “Il Garantista”)
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