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venerdì 4 marzo 2022

RIFLESSIONI PER UN'ETICA DI FINE VITA che ascolti e rispetti le volontà del direttamente interessato

 Mina Schett Welby

 · 3-3-2022

***  L’etica di fine vita, come l’acqua che non ha nessuna forma e prende tutte le forme, più che dettare delle regole dev’essere il soccorrevole atteggiamento che ascolta la volontà del malato. Se è vero che è compito del medico aumentare la quantità di vita e migliorare la qualità di vita, bisogna capire quando si è giunti alla fine della strada. Se aumentare la quantità di vita non è più praticabile perché i giorni, le ore e i minuti portano al malato soltanto dolore, il medico consapevole e umano deve volgersi al secondo obiettivo, cioè quello di migliorare la qualità di vita a costo di abbreviarne la quantità. 

È omicidio? Certamente no. La professionalità del medico non consiste nel mantenere in vita il paziente a ogni costo, e anzi, se lo fa, com’è ormai universalmente accettato, manca proprio al dovere deontologico di non far soffrire. Manca altrettanto al suo dovere se non tiene presente, in un’etica di fine vita, quella «alleanza terapeutica» col paziente che sta trasformando profondamente il rapporto tra il medico e il paziente, e che si può riassumere in una semplice frase: il medico non può fare niente se non ha informato il paziente e non ne ha acquisito il consenso. In questo caso, è il medico che «fa», chiedendo al paziente. Ma non varrà, specularmente, anche l’altro diritto, quello del paziente che chiede di «fare»?

Bisogna anche tenere presente che ogni paziente è un caso a sé. A ciascuna persona va concesso di morire mantenendo il proprio stile di vita, entro il quale può non rientrare, per esempio, la perdita di autonomia e la perdita della dignità

Io vorrei che in Italia le tematiche sull’eutanasia fossero affrontate obbiettivamente, prendendo atto dei nuovi presidi medici, delle tecnologie, delle capacità scientifiche applicate alla rianimazione. Vorrei una discussione obiettiva sulla liceità di intervenire nelle patologie inguaribili con manovre aggiornate in particolare negli Art. 13, 14, 15 del codice deontologico e aggiornarle. 

Sono costretta a prendere atto che sulla pelle di malati terminali, i medici non sono aggiornati oppure oppongono insensate opposizioni di coscienza. Per non parlarne di chi è costretto a vivere una tetraplegia, una locked-in sindrome anche da decenni. I politici, detentori di una” verità ultima e incontrovertibile” vogliono conservare quel copyright sulla vita e sulla morte che rappresenta la loro ultima spiaggia. La cosa più dolorosa è che, come in tutte le battaglie ideologiche, si difende un principio, incuranti delle sofferenze che questa difesa causa.


Sarà utile anche fare una riflessione. Tutti i secoli prima della nostra epoca sono stati contraddistinti dalla paura di morire anzitempo, paura che era incombente e reale a causa delle infezioni, della fame, delle guerre. Nella nostra epoca, invece, si è prodotta una specie di rivoluzione copernicana: nel nostro cuore, siamo assediati dalla paura di sopravvivere oltre il limite consentito dalla dignità personale, dal nostro desiderio, dalla nostra capacità di sopportare sofferenze fisiche e mentali. Questo vivere «oltre i limiti» che siamo disponibili ad accettare è il risultato del progresso della scienza medica, che con le metodiche di sostegno vitale è in grado di tenere in vita chi un tempo sarebbe morto. Ma se è la medicina ad aver creato il problema, è doveroso che sia la medicina a preoccuparsi di trovare le soluzioni. 

Il filosofo latino Lucio Anneo Seneca scrive che «l’uomo saggio vive finché deve, non finché può», e forse questo ammonimento va girato alla medicina. Come si dice a proposito della ricerca scientifica, non tutto quello che si può fare è lecito fare.

L’errore più banale, la trappola più comune, è credere che a fronteggiarsi sia chi è a favore della vita e chi a favore non è. In realtà, a fronteggiarsi sono il Dubbio e la Certezza.

Da una parte c’è una presa d’atto che l’uomo è quello che è, non quello che vorremmo che fosse. Dall’altra parte si vorrebbe che l’uomo fosse ciò che non è. 

Siamo quel che siamo perché abbiamo contrastato la natura, che abbiamo scoperto, a nostre spese, essere matrigna e non madre.

 Siamo quel che siamo perché abbiamo contrastato tutte le leggi che volevano rinchiuderci nella caverna platonica, schiavi tremanti di ombre sconosciute.

 Siamo quel che siamo perché abbiamo sempre sperato che ai nostri figli fossero risparmiate le nostre sofferenze ed abbiamo cercato di metterli nelle condizioni migliori per affrontare la vita. 

 Siamo quel che siamo perché alla Verità Unica abbiamo opposto una Realtà multiversa, polisemica e pragmatica.

Un Testamento biologico, o più correttamente Dat (dichiarazioni anticipate di trattamento) , che rispetti le diverse autorappresentazioni dell’esistenza sarebbe un notevole passo avanti, se tutti lo facessero.

 Il secondo passo potrebbe essere quello di riprendere il cammino iniziato dal professor Umberto Veronesi, quando, ministro della salute, insediò la Commissione su Nutrizione e idratazione nei soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza diretta da Fabrizio Oleari.

 Il terzo step dovrebbe riguardare la possibilità di far partire un’indagine conoscitiva sul fenomeno dell’eutanasia clandestina, come già richiesto  dall’Associazione Luca Coscioni con un appello sottoscritto da oltre trenta medici. 

Sarebbe anche opportuno istituire, sul modello olandese, un programma di formazione speciale per i medici consulenti. L’eutanasia, così come è discussa in tutti i Paesi, consiste nel sapere se è possibile accogliere la richiesta consapevole di malati in fin di vita o cittadini in uno stato fisico diventato insopportabile, afflitti da grandi sofferenze che chiedono di essere aiutati a morire, e non riguarda affatto lo sterminio di vecchi, disabili, depressi, malati mentali sofferenti, ma privi della libertà di attuare una scelta consapevole.

Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui. Se sognare un poco è pericoloso, scriveva Marcel Proust, la sua cura non è sognare meno ma sognare di più, sognare tutto il tempo.


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