Indice:
1) Il reato di pornografia minorile non richiede la consapevolezza della vittima, né che questa venga in contatto con l’autore del crimine: dopo la Convenzione internazionale per la protezione dei minori, contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale è sufficiente la rappresentazione delle parti intime e il pericolo di diffusione delle immagini.
2) Se mi lasci non vale: la promessa sposa, abbandonata a pochi giorni dalle nozze, ha diritto di ottenere dall’ex fidanzato il risarcimento dei danni, oltre il rimborso di tutte le spese sostenute in vista della vita coniugale.
3) Consenso informato e trattamento sanitario: l’obbligo di informativa tutela il diritto alla scelta consapevole mentre il trattamento sanitario tutela il diritto alla salute. Il consenso è quindi condizione per il trattamento e deve essere dato per scritto per far emergere con chiarezza l'informativa sull'intervento, o la cura, e sulle sue conseguenze.
4) Condominio. L'amministratore ha l'obbligo di rispondere al creditore che chiede di conoscere i nominativi dei condomini morosi per agire contro di loro, pro quota, e recuperare il proprio credito.
5) Allontanamento di una bimba dalla casa familiare per presunto abuso da parte del padre. Il Comune è responsabile del comportamento negligente dei servizi sociali che omettono di procedere ai necessari approfondimenti e causano l'ingiusto allontanamento della minore dalla famiglia.
FRONTE
1) Il reato di pornografia minorile non richiede la consapevolezza della vittima, né che questa venga in contatto con l’autore del crimine: dopo la Convenzione internazionale per la protezione dei minori, contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale è sufficiente la rappresentazione delle parti intime e il pericolo di diffusione delle immagini.
La Corte d’Appello di Milano conferma la condanna di un uomo alla pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione ed alla multa di Euro 15.000, oltre al risarcimento del danno, per aver ripreso di nascosto le parti intime di ragazzi minori di quattordici anni mentre si trovavano, ignari, negli spogliatoi della palestra dove svolgevano attività fisica.
Inoltre, l’uomo è condannato per detenzione di materiale pornografico ottenuto utilizzando un minore di diciotto anni.
Contro la sentenza l’uomo ricorre in Cassazione e sostiene che:
- il reato di pedopornografia (pornografia minorile) si riferisce solo a minori rappresentati in pose sessualmente esplicite;
- per “utilizzo del minore” ai fini della produzione di materiale pornografico il soggetto deve essere coinvolto mentre nel suo caso i ragazzi erano all’oscuro di tutto;
- non c’è prova del pericolo concreto di diffusione di foto e film posseduti.
La Corte di cassazione respinge il ricorso e chiarisce la nozione di materiale pornografico minorile mettendo in evidenza che:
- il Protocollo opzionale alla Convezione sui diritti dell’infanzia, ratificato dall’Italia nel 2002, definisce pornografia minorile qualunque rappresentazione, con qualsiasi mezzo, di minori intenti in atti sessuali espliciti, concreti o simulati, e qualunque rappresentazione degli organi sessuali;
- la decisione quadro del Consiglio europeo del 2003 fa riferimento a due elementi essenziali: la rappresentazione di una figura umana e l’atteggiamento sessuale della figura rappresentata;
- infine, la Corte costituzionale, con una sentenza del 2010, ha ritenuto che il reato di pornografia minorile si configura solo quando il materiale pornografico raffigura minori in una condotta sessualmente esplicita, consistente anche nella semplice esposizione lasciva dei genitali o del pube;
- in questo quadro europeo il giudice italiano, nell’interpretare la norma che prevede il reato di pornografia minorile, deve attenersi alla definizione fornita dal Consiglio europeo, che richiede la presenza di immagini di minori in pose “sessualmente equivoche”, anche se non necessariamente consistenti in atti sessuali;
- però, nel 2012 la legge di ratifica ed esecuzione della Convenzione per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, rende più severa la norma sul reato di pedopornografia perché comprende nel reato anche la semplice rappresentazione degli organi sessuali e non più l’esibizione lasciva degli stessi.
Ciò premesso, la Corte conferma la condanna perchè:
a) l’imputato è stato trovato in possesso di numerose fotografie ritraenti minori nudi, il che evidenzia la ricerca e l’attesa, da parte sua, dei momenti in cui i ragazzi assumono atteggiamenti sessualmente eccitanti, anche se involontariamente e a loro insaputa;
b) il reato di pedopornografia non richiede la consapevolezza della vittima, né la sua interazione con l’autore della condotta, perché si basa sul solo dato oggettivo;
c) per il reato di diffusione di materiale pedopornografico è sufficiente che vi sia il pericolo che ciò accada e il ricorrente ha conservato molto materiale in un hard disk esterno al computer, facilmente trasportabile.
VERSO
1) Il reato di pornografia minorile non richiede la consapevolezza della vittima, né che questa venga in contatto con l’autore del crimine: dopo la Convenzione internazionale per la protezione dei minori, contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale è sufficiente la rappresentazione delle parti intime e il pericolo di diffusione delle immagini.
Corte di Cassazione, Sezione Penale, 26 ottobre 2015, n. 42964.
“...1. - Con sentenza dell'11 giugno 2014, la Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano del 12 aprile 2013, con la quale l'imputato era stato condannato alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione ed Euro 15.000,00 di multa, oltre pene accessorie e oltre al risarcimento del danno nei confronti delle costituite parti civili, liquidato in via definitiva in Euro 1000,00 per ciascuna, in relazione: ai reati di cui all'art. 81 c.p., comma 2, art. 600 ter c.p., comma 1, art. 600 sexies c.p., commi 1 e 2, per avere, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso e anche in tempi diversi, in qualità di allenatore di una squadra dilettantistica, prodotto materiale pornografico utilizzandomi minorenni, con condotta consistita nel riprendere di nascosto le parti intime di questi mentre erano nudi all'interno degli spogliatoi, con l'aggravante di avere commesso il fatto in danno dei soggetti minori di 14 anni ed essendo la persona cui questi erano stati affidati per ragioni di educazione, istruzione, vigilanza e custodia (capo A); art. 81 c.p., comma 2, art. 600 quater c.p., commi 1 e 2, perchè, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso e anche in tempi diversi, deteneva materiale pornografico ulteriore rispetto a quello di cui al capo A, realizzato mediante l'utilizzo di minore degli anni 18, all'interno della scheda di memoria della macchina fotografica, e dell'hard disk del computer; con l'aggravante dell'ingente quantità (capo B). Fatti contestati come commessi tra l'… .
2. - Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento.
2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si contesta la sussistenza del reato di cui al capo A, sul rilievo che le immagini di minori intenti a cambiarsi e a farsi la doccia nello spogliatoio dopo la partita di calcio riprese dall'imputato con una telecamera nascosta all'insaputa degli stessi non sarebbero materiale pedopornografico ai sensi dell'art. 600 ter c.p.. La difesa premette alcune considerazioni circa la nozione di pedopornografia secondo la giurisprudenza di legittimità, sostenendo che la stessa si riferirebbe solo a minori rappresentati in atteggiamenti di natura sessualmente esplicita. Nè la definizione di materiale pedopornografico contenuta nell'art. 600 ter c.p., nuovo comma 7, potrebbe trovare applicazione nel caso di specie, essendo applicabile ai soli fatti commessi dopo l'ottobre del 2012. Secondo la difesa, sarebbe dunque necessario un atteggiamento consapevole del soggetto passivo, evidentemente insussistente nel caso in esame. E non si potrebbe ritenere - come invece fa la Corte d'appello - che la natura pedopornografica di una determinata immagine dipenda dall'effetto che essa può produrre in capo a chi la osserva, non potendosi attribuire alcune rilevanza al presunto movente morboso dell'autore del fatto.
2.2. - In secondo luogo…
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FRONTE
2) Se mi lasci non vale : la promessa sposa, abbandonata a pochi giorni dalle nozze, ha diritto di ottenere dall’ex fidanzato il risarcimento dei danni, oltre il rimborso di tutte le spese sostenute in vista della vita coniugale.
Nel 1999, dopo undici anni di fidanzamento Lui & Lei decidono di sposarsi, richiedono le pubblicazioni e fissano la data delle nozze.
In vista del matrimonio la futura sposa, di professione geometra, si occupa della ristrutturazione dell’appartamento di Lui scelto come futura casa coniugale. La promessa sposa acquista, quasi tutto a sue spese, l’arredamento della casa, compera l’abito per le nozze ma una settimana prima della cerimonia Lui la lascia confessandole di avere un’altra relazione.
Lei fa causa all’ex fidanzato al Tribunale di Prato per ottenere sia il risarcimento dei danni, per non aver rispettato la “promessa di matrimonio”, sia il pagamento delle sue competenze professionali per i lavori di ristrutturazione dell’appartamento.
Lui si oppone alla condanna, di 55 milioni di lire oltre le spese processuali e si difende affermando che: in realtà il rifiuto di sposarsi era giustificato dalla scoperta della frequentazione della fidanzata con un collega di lavoro e che comunque, in ogni caso, nulla era dovuto alla ex poiché le spese erano state sostenute prima della promessa di matrimonio.
Il Tribunale di Prato dà ragione al mancato sposo ma la Corte di Appello di Firenze lo dichiara responsabile di rifiuto ingiustificato al mantenimento della promessa di matrimonio.
Lo condanna quindi al risarcimento dei danni nei confronti della ex fidanzata: cioè a rimborsare tutte le spese sostenute, come l’abito da sposa o gli anelli e gli arredi, nonché a pagare l’attività per la ristrutturazione della casa.
La sentenza della Corte di Appello viene confermata dalla Suprema Corte di Cassazione che ribadisce il principio secondo cui in caso di violazione della promessa di matrimonio le spese risarcibili sono tutte quelle sostenute in vista della vita coniugale e non possono quindi essere limitate solo a quelle sostenute per la cerimonia nuziale.
VERSO
2) Se mi lasci non vale : la promessa sposa, abbandonata a pochi giorni dalle nozze, ha diritto di ottenere dall’ex fidanzato il risarcimento dei danni, oltre il rimborso di tutte le spese sostenute in vista della vita coniugale.
Corte di Cassazione, Sezione III, 15 ottobre 2015, n. 20889.
“…1. Nel 1999, … convenne in giudizio … per sentirlo condannare al pagamento della somma di circa 48 milioni di lire, a titolo di risarcimento danni ai sensi dell’articolo 81 c.c. e di lire 7 milioni circa a titolo di compensi per prestazioni professionali.
Espose l’attrice che aveva intrattenuto con il convenuto una relazione sentimentale per 11 anni che poi sfociata nella comune decisione di contrarre matrimonio erano state quindi eseguite le pubblicazioni. Conseguentemente, l’attrice utilizzando le proprie competenze professionali di geometra, e per la maggior parte a sue spese, aveva eseguito lavori di ristrutturazione dell’immobile di proprietà del …, scelto quale casa coniugale. Si era occupata anche dell’acquisto degli arredi, ma una settimana prima della celebrazione del matrimonio il futuro sposo le confessò, del tutto inaspettatamente, che aveva un’altra relazione.
Si difese il convenuto sostenendo che il rifiuto di contrarre matrimonio, in realtà, era giustificato dalla scoperta della frequentazione della … con un collega di lavoro, e che comunque le spese richieste erano avvenute prima della promessa di matrimonio. Pertanto chiese il rigetto della domanda attrice e la condanna della stessa al risarcimento di danni che riteneva di aver subito avendo la … con il proprio comportamento giustificato il motivo di rifiuto al matrimonio.
Il Tribunale di Prato, con sentenza del 26 novembre 2007, respinse le domande dell’attrice, dichiarò la decadenza della domanda riconvenzionale e compensò le spese.
2. La decisione e’ stata riformata dalla Corte d’Appello di Firenze, con sentenza del 9 maggio 2011. La Corte ha ritenuto che era onere del convenuto dimostrare l’esistenza di un giustificato …
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FRONTE
3) Consenso informato e trattamento sanitario: l’obbligo di informativa tutela il diritto alla scelta consapevole mentre il trattamento sanitario tutela il diritto alla salute. Il consenso è quindi condizione per il trattamento e deve essere dato per scritto per far emergere con chiarezza l’informativa sull’intervento, o la cura, e sulle sue conseguenze.
Una donna ricorre per Cassazione dopo aver visto le sue ragioni respinte nel giudizio di primo grado nel 2003 e in appello nel 2012.
Afferma che, nella clinica privata a cui si è rivolta per essere operata al ginocchio destro, lesionato in seguito ad una caduta sulla pista da sci, l’avrebbero operata senza il suo consenso anche al ginocchio sinistro, che era del tutto sano.
I motivi di ricorso sono diversi. La donna sostiene che:
- i giudici hanno dato valore a prove testimoniali tese a dimostrare che esistevano patti ulteriori e diversi oltre a quello scritto, e che prevedevano anche l’operazione del ginocchio sinistro;
- i giudici hanno creduto al fatto che avrebbe prestato il proprio consenso verbalmente, prima dell’intervento, quando si trovava sotto l’effetto dell’anestesia, e quindi intontita;
- e che alla fine, è stato fatto gravare su di lei l’onere di provare che non aveva prestato il proprio consenso all’operazione del ginocchio sinistro, mentre è il medico a dover dimostrare di aver acquisito il consenso del paziente all’intervento da eseguire;
- e che, ingiustamente, è stato dato peso anche al fatto che non ha contestato l’accaduto nell’immediatezza della sua scoperta; che i giudici non hanno riconosciuto la colpa del medico che l’ha operata ad un ginocchio sano.
La Corte di cassazione accoglie il ricorso e spiega che:
- secondo la Costituzione: nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario, salvo che nei casi di trattamento obbligatorio per legge; la libertà personale e integrità fisica sono inviolabili;
- la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, conferma questi princìpi dai quali discende che il consenso informato è il presupposto e la condizione del trattamento sanitario, senza il quale l’intervento del medico è da considerare illecito;
- il consenso informato consiste nell’obbligo di informare il paziente sulle prevedibili conseguenze del trattamento a cui sarà sottoposto, e, in particolare, sulla possibilità che ne derivi un peggioramento delle sue condizioni di salute, in modo da porlo nelle condizioni di decidere consapevolmente se sottoporvisi o meno;
- l’obbligo di informativa attiene al diritto fondamentale della persona alla libera e consapevole autodeterminazione, mentre il trattamento terapeutico riguarda la tutela del diritto fondamentale alla salute;
- la giurisprudenza ha affermato che è onere del medico provare di aver fornito al paziente un'informazione completa ed effettiva sull’intervento, o la cura, e sulle sue conseguenze, e che il rilascio del consenso non può essere presunto sulla base delle qualità personali del paziente, ma anzi, quest’ultimo deve ricevere spiegazioni dettagliate ed adeguate al suo livello culturale, al suo particolare stato soggettivo e al grado delle conoscenze specifiche di cui dispone;
- il medico viene meno all'obbligo di fornire idonea ed esaustiva informazione al paziente sia quando omette del tutto di parlargli dell’intervento prospettato e dei relativi rischi e/o possibilità di successo sia quando ne acquisisce il consenso in maniera impropria, com’è accaduto nel caso in esame, in cui la ricorrente l‘avrebbe addirittura prestato oralmente mentre era sotto l’effetto dei narcotici.
La Corte inoltre precisa che :
- per quanto riguarda la domanda di risarcimento del danno per la “colpa” del medico, al medico specialista è richiesta una diligenza “qualificata”, cioè contrassegnata dalla perizia e dall’abilità tecnica adeguate al tipo di attività da svolgere e allo standard professionale della sua categoria. In ogni caso di "insuccesso", quindi, è onere del medico o della struttura sanitaria in cui opera provare che il risultato negativo dipende da un fatto a sé non imputabile ovvero ad un evento imprevedibile e non superabile con l'adeguata diligenza;
- ha sbagliato, pertanto, la precedente sentenza che ha affermato che : la consapevolezza della paziente poteva dedursi dalla mancata contestazione dei fatti nell’immediatezza dell’intervento; ai fini informativi e di acquisizione del consenso non è indispensabile la forma scritta, e ciò, a maggior ragione nel caso in esame, in cui la paziente/ricorrente è straniera.
VERSO
3) Consenso informato e trattamento sanitario: l’obbligo di informativa tutela il diritto alla scelta consapevole mentre il trattamento sanitario tutela il diritto alla salute. Il consenso è quindi condizione per il trattamento e deve essere dato per scritto per far emergere con chiarezza l’informativa sull’intervento, o la cura, e sulle sue conseguenze.
Corte di Cassazione, Sezione III Civile, 29 settembre 2015, n. 19212.
“… Con sentenza del 13/11/2012 la Corte d'Appello di Roma ha respinto il gravame interposto dalla sig. ... in relazione alla pronunzia Trib. Roma n. 39600/03, di rigetto della domanda proposta nei confronti del sig. ... e delle chiamate … s.p.a. e … s.p.a. di risarcimento dei danni lamentati in conseguenza di intervento chirurgico effettuato presso la clinica … , oltre che come convenuto al ginocchio destro lesionato in conseguenza di caduta su pista da sci, anche a quello sinistro, non lesionato e per il quale non aveva prestato consenso. Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la ... propone ora ricorso per cassazione, affidato a 13 motivi, illustrati da memoria. Resistono con separati controricorsi il ... e la società … s.r.l. (già … s.p.a.). Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva. Già chiamata all'udienza camerale del 9/10/2013, la causa è stata rinviata alla pubblica udienza.
Motivi della decisione
Con il 1 motivo la ricorrente denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1324, 2722 c.c., 12 disp. prel. c.c., in relazione all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c.. Si duole che la corte di merito abbia posto a fondamento dell'impugnata decisione prove testimoniali erroneamente assunte, in quanto volte a provare patti aggiunti o contrari a quelli in precedenza concordati in ordine all'intervento chirurgico da effettuarsi. Con il 2 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1321, 1325, 1362 c.c., in relazione all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c.. Si duole che la corte di merito abbia erroneamente negato natura negoziale all'atto contenuto nel documento scritto predisposto dal F. e da lei sottoscritto relativo all'intervento chirurgico da eseguirsi al (solo) ginocchio destro. Con il 3 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1328, 1723, 1724 c.c., in relazione all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c.. Con il 4 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1325, 1352 c.c., 32 Codice deontologico, in relazione all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c.. Con il 5 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2697 c.c., 24 Cost., in relazione all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c.. Con il 6 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1223 c.c., 2, 13, 32 Cost., in relazione all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c.. Si duole che la corte di merito abbia erroneamente riconosciuto valore a consenso asseritamente prestato verbalmente nel corso dell'intervento chirurgico per l'operazione anche del ginocchio sinistro, laddove tale consenso non poteva essere stato da lei comunque validamente prestato, essendo sotto narcosi e non conoscendo l'italiano.
Lamenta che la corte di merito l'ha erroneamente gravata di un indebito onere della prova del fatto negativo della mancata prestazione di consenso informato in ordine all'operazione (anche) al ginocchio sinistro, laddove è il medico (e/o la struttura) a dover provare di avere acquisito dal paziente il consenso informato relativamente all'intervento da eseguirsi. Con l'8 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” dell'art. 2727 c.c., in relazione all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c.. Con il 9 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2934, 2694 c.c., in relazione all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c..
Si duole che la corte di merito abbia erroneamente desunto la presunzione di consenso all'operazione anche al ginocchio sinistro dalla mancata contestazione da parte sua nell'immediatezza al riguardo, laddove nessun onere grava in proposito a suo carico. Con il 10 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1176, 2236 c.c., in relazione all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c.. Si duole che la corte di merito non abbia ravvisato la colpa del medico per aver operato anche il ginocchio sinistro, che era sano, e altresì in assenza di consenso informato. Con l'11 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” dell'art. 246 c.p.c., in relazione all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c.. Con il 12 motivo denunzia …
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FRONTE
4) Condominio. L’Amministratore ha l’obbligo di rispondere al creditore che chiede di conoscere i nominativi dei condomini morosi per agire contro di loro, pro quota, e recuperare il proprio credito.
Il creditore di un Condominio di Savona si rivolge all’Amministratore per conoscere i nomi di tutti i condomini morosi così da agire, pro quota, contro gli stessi per ottenere il saldo di un credito non ancora del tutto onorato. L’Amministratore non risponde e il creditore agisce in giudizio contro un singolo condomino chiedendo a lui l’intero pagamento residuo.
Il condomino si rivolge al Tribunale e il Giudice evidenzia innanzitutto che l’Amministratore ha l’obbligo di indicare i nominativi dei condomini morosi poiché la recente riforma del condominio impone al creditore di recuperare ciò che gli spetta dai condomini che siano in ritardo con i pagamenti.
Il Giudice sospende quindi l’azione giudiziaria del creditore, attivata ingiustamente contro un singolo condomino (che per di più era in regola con i pagamenti), e sottolinea al creditore che di fronte al silenzio dell’Amministratore la strada da seguire è rivolgersi al Tribunale chiedendo d’urgenza di imporre all’Amministratore di fornire i nominativi dei condomini morosi.
VERSO
4) Condominio. L’Amministratore ha l’obbligo di rispondere al creditore che chiede di conoscere i nominativi dei condomini morosi per agire contro di loro, pro quota, e recuperare il proprio credito.
Tribunale di Savona, 29 settembre 2015, ordinanza n. 31.
“… Addì 29/09/205 avanti il G.E. Dott.ssa … sono comparsi l’Avv. … per parte opponente e personalmente … e l’Avv. … con Avv. … e Avv. …
Entrambi i procuratori si riportano agli atti.
Il Giudice
- vista la pronuncia della Cassazione n. 9148/08,
- vista la riforma dell’art. 63 disp. att. c.c. ,
- ritenuto che non risulta provata l’avvenuta esecuzione nei confronti dei condomini morosi,
- ritenuto pertanto che il principio di solidarietà della obbligazione passiva di cui al titolo azionato non è assistita da fumus boni juris, in accoglimento della richiesta di sospensione
PQM
Sospende l’esecuzione e fissa termine di giorni 60 per la introduzione del giudizio di merito secondo le modalità previste in ragione di materia e rito, previa iscrizione a ruolo, a cura della parte interessata, richiamati i termini di cui all’art. 163 bis c.p.c. , ridotti a metà.
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FRONTE
5) Allontanamento di una bimba dalla casa familiare per presunto abuso da parte del padre. Il Comune è responsabile del comportamento negligente dei servizi sociali che omettono di procedere ai necessari approfondimenti e causano l’ingiusto allontanamento della minore dalla famiglia.
Nel 2005, in un piccolo Comune lombardo una maestra è convinta che una bambina di cinque anni sia vittima di abusi sessuali perpetrati dal padre, convince di ciò le assistenti sociali del Comune che ottengono dal Sindaco un provvedimento di allontanamento della bambina dalla casa familiare.
La bimba viene quindi affidata al Comune ma dopo sei mesi il Tribunale per i minori dispone il rientro della piccola in famiglia dopo aver fatto svolgere le dovute indagini sulla situazione prospettata dai servizi sociali.
I genitori della bimba citano in giudizio il Comune per ottenere il risarcimento del danno subito a causa del comportamento incompetente del personale comunale, su cui l’Amministrazione aveva il dovere di vigilare.
Il Comune si difende sostenendo che:
- la presunta incompetenza degli addetti ai servizi sociali si fonderebbe solo su una perizia del consulente tecnico del Tribunale per i minori, perizia che deve invece essere considerata come una semplice opinione personale del perito;
- non c’è stata la prova della colpa o del dolo degli addetti ai servizi sociali e il Sindaco è stato ritenuto ingiustamente responsabile per aver adottato un provvedimento che non è mai stato impugnato o annullato.
Il Tribunale di Monza e la Corte di Appello di Milano danno ragione ai genitori. Il Comune si rivolge alla Corte di Cassazione che ne conferma la condanna chiarendo che:
- i giudici di primo e secondo grado si sono convinti dell’incompetenza degli operatori dei servizi sociali sia per la relazione del perito del Tribunale per i Minori sia per la stessa difesa comunale, che ha presentato l’assistente sociale e la psicologa come condizionate dalla maestra della bambina allontanata;
- il Comune non ha mai dimostrato l’infondatezza di quanto affermato dal perito, spiegando, ad es., quali prove o documenti abbiano giustificato l’allarme sulla sussistenza di una situazione di pericolo per la minore;
- inoltre, il provvedimento adottato dal Sindaco ha carattere di urgenza, ed è previsto dal codice civile per i casi di “abbandono morale e materiale”, o, comunque, per situazioni di palese disagio del minore;
- il Comune non ha nemmeno spiegato perché non si sia rivolto all’autorità giudiziaria affinché compisse i necessari accertamenti riguardo alla vicenda, dal momento che l’autorità amministrativa non ha gli stessi poteri di indagine e di istruttoria che sarebbero stati utili nel caso in esame, fondato, in sostanza, sulle parole, chissà se spontanee o richieste, di una bambina di cinque anni;
- quanto alla responsabilità del Sindaco, essa non nasce dall’aver adottato il provvedimento incriminato, ma per il comportamento gravemente colposo tenuto dai dipendenti comunali, di cui al Comune viene attribuita la responsabilità oggettiva, perché su quello avrebbe dovuto esercitare un controllo.
VERSO
5) Allontanamento di una bimba dalla casa familiare per presunto abuso da parte del padre. Il Comune è responsabile del comportamento negligente dei servizi sociali che omettono di procedere ai necessari approfondimenti e causano l’ingiusto allontanamento della minore dalla famiglia.
Corte di Cassazione, Sezione III Civile, 16 ottobre 2015, n. 20928.
“...Con atto di citazione notificato il 21 aprile 2005 … ed … , in proprio e quali esercenti la potestà parentale sui figli minori, … e … , hanno convenuto davanti al Tribunale di Monza il Comune di …, in persona del Sindaco in carica,
chiedendone la condanna al risarcimento dei danni ai sensi dell' art. 2049 cod. civ. , in relazione al comportamento illecito degli addetti ai servizi sociali, i quali - basandosi esclusivamente sulle dichiarazioni di una maestra d'asilo, che aveva ritenuto di ravvisare il sospetto di molestie sessuali parte del padre sulla minore … , nata nel … - avevano ottenuto dal Sindaco un provvedimento di allontanamento della minore dalla casa familiare e di affidamento al Comune, emesso ai sensi dell' art. 403 cod. civ. il 26 maggio 2004, e ratificato dal Tribunale per i minorenni il giorno successivo.
A seguito di ulteriori indagini anche tramite CTU, il Tribunale
dei minori aveva poi disposto con decreto 29 novembre 2004, il rientro in famiglia della bambina, con il supporto di un Centro specializzato, e con successivo decreto 8 giugno 2005 aveva revocato ogni provvedimento a tutela di … dando atto che gli accertamenti condotti nei sei mesi in cui la bambina era stata allontanata dalla famiglia non avevano fatto emergere "elementi compatibili con la possibile sussistenza di molestie sessuali ai suoi danni", né contenuti atti a far ipotizzare disturbi della personalità od altri aspetti patologici.
Da qui la domanda risarcitoria dei familiari.
Il Comune ha resistito alle domande, che il Tribunale ha accolto, condannando il convenuto al risarcimento dei danni.
Proposto appello principale dal Comune e incidentale dagli attori in primo grado, con sentenza 28 giugno - 14 settembre 2011 n. 2525 la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado, ponendo a carico del Comune le spese del grado.
Il soccombente propone sei motivi di ricorso per cassazione, illustrati da memoria.
Resistono con controricorso gli intimati.
Motivi della decisione.
1. - E' logicamente e giuridicamente preliminare ad ogni altra questione l'esame del sesto motivo di ricorso, che denuncia violazione degli art. 99 e 100 cod. proc. civ. , sul rilievo che la domanda di risarcimento dei danni proposta dagli attori avrebbe dovuto essere indirizzata contro lo Stato e non contro il Comune, in quanto il Sindaco, nell' emettere l'ordinanza provvisoria e urgente di cui all’art. 403 cod. civ. , ha agito quale ufficiale del governo e non quale rappresentante della comunità locale, essendo in questione la tutela dei diritti della famiglia e delle persone nell'ambito della comunità familiare …
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