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venerdì 26 agosto 2011

Su Israele e dintorni

Un'analisi di David Meghnagi (20 agosto 2011)

L'accusa antisemita di anormalità che un tempo era rivolta contro gli ebrei, si è trasferita sullo Stato di Israele. Lo Stato degli ebrei è diventato l'Ebreo degli Stati e gli ebrei i suoi ambasciatori, non solo agli occhi degli antisemiti, ma anche di molti sostenitori. Lo Stato che doveva rendere l'esistenza degli ebrei più sicura, il che è in parte accaduto, è oggi la fonte delle preoccupazioni di ogni ebreo. È il suo roveto ardente, il richiamo del Sinai che lo insegue, quanto più ne fugge. Un richiamo che  prima o poi arriva anche per gli ebrei più tiepidi e lontani, costretti a riscoprirsi tali per evitare il collasso morale.

Nelle nuove rappresentazioni dell'antisemitismo l'esistenza d'Israele costituisce uno scandalo, una realtà ontologicamente inaccettabile. Unico Stato al mondo che deve la sua nascita a una votazione dell'Assemblea delle Nazioni Unite, Israele è anche lo Stato che ha subito il numero più alto di condanne. Che a votare le condanne siano in maggioranza delle dittature e degli Stati di polizia è una magra consolazione.

Trattato come "non luogo", può votare, ma non può assumere il diritto di rappresentare a turno nel Consiglio di sicurezza la propria regione di appartenenza secondo un principio di rotazione che lo consente anche alle dittature più sanguinarie.

Sino a quando non ha scoperto che per delegittimare Israele, poteva essere più utile negare e ridimensionare la tragedia della Shoah, il nazionalismo arabo non ha esitato a istituire un legame diretto fra il comportamento di Israele e la tragedia del Lager.

Nella propaganda araba degli anni cinquanta e sessanta non era raro ricondurre il comportamento "malvagio" degli israeliani all'"apprendistato" nei Lager nazisti. A differenza che nella propaganda antisionista di ispirazione "cristiana" e "progressista" di matrice europea, dove la vittima ha uno statuto speciale e l'accusa antisemita può procedere solo attraverso il rovesciamento simbolico della condizione di vittima in carnefice, nella letteratura araba la "malvagità" degli ebrei era considerata una conseguenza diretta dell'esperienza concentrazionaria.

Nella propaganda araba il fatto che oltre la metà della popolazione israeliana provenisse dal mondo arabo non faceva testo. Si trattava di ebrei invisibili, irriconoscenti della "generosità  araba". Poco importava che fossero stati perseguitati e costretti alla fuga in massa dai loro paesi in centinaia di migliaia dopo essere stati depredati. A differenza dei profughi palestinesi che erano un elemento fondamentale di un conflitto sanguinoso scatenato dalla Lega Araba per impedire la nascita di Israele, gli ebrei del mondo arabo erano delle vittime predestinate e degli ostaggi colpiti  per il solo fatto di essere ebrei. Eppure di loro il mondo non si è mai accorto. Per lungo tempo nemmeno in Israele sono stati considerati tali. Era sufficiente anche per loro essere vivi, avere avuto la possibilità di ricostruire la loro esistenza nella Terra dei Padri.

In un paese dove più della metà della popolazione aveva perduto qualcuno nei campi di sterminio, la vita nelle tende e nelle catapecchie nei primi due decenni di vita dello Stato poteva essere considerata una benedizione - e tale fu considerata dalla stragrande maggioranza delle persone che si riversarono a centinaia di migliaia dall'intero mondo arabo, in alcuni casi attraversando a piedi  il deserto. Come avvenne millenni prima con la fuga dall'Egitto, la condizione di profugo fu sublimata e trasfigurata in una atto di libertà e di riscatto. La fuga divenne un ritorno, la perdita
di un intero mondo divenne l'alba di un nuovo inizio.

Se il mondo arabo avesse accettato nel 1947 la dichiarazione di spartizione delle Nazioni Unite, israeliani e palestinesi festeggerebbero oggi nello stesso giorno la loro indipendenza. La storia non si fa con i se. Ma da questo dato storico non si può  prescindere per avere un quadro più veritiero dell'evoluzione che ha portato alla situazione attuale. Allo stesso modo non si può dimenticare che la guerra del giugno 1967 fu la diretta conseguenza delle azioni del dittatore egiziano.

Non potendo sconfiggere Israele sul campo, il nazionalismo arabo apprese col tempo che era più facile combatterlo appropriandosi dei simboli della tragedia ebraica. Le icone ebraiche dopo Auschwitz sono state utilizzate come arma contro Israele per delegittimarne l'esistenza. Lo sterminio mancato degli ebrei nella guerra scatenata dagli eserciti arabi nel 1948 è stato rappresentato come la  Shoah dei palestinesi (Naqba). L'Olocausto sognato dalle masse arabe inneggianti a Nasser nelle settimane precedenti la guerra de giugno 1967, è diventato l'Olocausto
subito (Harsa) dalla nazione araba. La demonizzazione di Israele nel mondo arabo e islamico ha assolto il compito di lenire una ferita narcisistica che ha radici lontane.

L'identificazione di Israele con i mali che corrodono la civiltà araba ha permesso di spostare su un obiettivo esterno la rabbia e la frustrazione per il fallimento del processo di decolonizzazione e la mancata fuoriuscita dal sottosviluppo economico. La demonizzazione di Israele ha permesso di non affrontare il cuore dei problemi che dilaniano le società arabe: la corruzione, il divario sociale tra chi possiede tutto e chi niente, il mancato decollo economico, l'assenza di democrazia, lo spreco immenso delle risorse, l'aumento della forbice tra gli immensamente ricchi e gli immensamente poveri, la mancata alfabetizzazione della società, il lavoro minorile, il carattere militare e oppressivo dei regimi, l'oppressione delle donne, la desertificazione delle aree rurali, il sovraffollamento delle città, la mancanza di posti di lavoro con la conseguente migrazione verso l'Europa.

Da qui il carattere archetipico nella rappresentazione che i movimenti fondamentalisti islamici attribuiscono alla presenza di Israele nella regione e al ruolo degli ebrei dagli albori della storia islamica. Non si spiegherebbe altrimenti l'isterica reazione con cui l'Egitto accolse agli inizi la decisione dell'URSS di aprire le porte all'emigrazione ebraica verso Israele. Né si comprenderebbe la collusione del governo egiziano con la propaganda antisemita e anti israeliana sulla stampa e sui media egiziani, nonostante l'esistenza di un trattato di pace che ha permesso all'Egitto di rientrare in possesso dei territori occupati da Israele nel corso della guerra del giugno 1967.

Il fatto che l'Egitto abbia mantenuto fredde le relazioni col suo vicino, tollerando e autorizzando sui media la diffusione dei peggiori stereotipi dell'antisemitismo, è un dato che non è stato adeguatamente valutato e ponderato. Per gli israeliani era sufficiente che il confine meridionale fosse sicuro. Ma un confine è veramente sicuro se diventa anche amico e l'Egitto, amico per davvero non è mai diventato - come purtroppo riscoprono con angoscia gli israeliani.

Nelle nuove derive dell'antisemitismo l'odio contro l'America può identificarsi con quello contro Israele e gli ebrei. Demonizzando l'ebraismo e la memoria della Shoah, il radicalismo islamico può presentarsi come l'estremo atto di ribellione contro la corruzione delle classi dirigenti assoldate all'Occidente.

Se i politici israeliani si fossero presi la briga di leggere qualche romanzo egiziano o poesia dopo la guerra, si sarebbero accorti che l'attacco a sorpresa dell'Egitto del 1973 era purtroppo solo una questione di tempo. Come ebbe a dire Hussein Fawzi al poeta israeliano Haim Guri, l'intelligence non può permettersi di ignorare la letteratura e deve saper leggere anche le poesie. Farebbe bene a studiare con attenzione  le migliaia di vignette con cui gli israeliani e gli ebrei sono dipinti come mostri e serpenti da distruggere e da estirpare. In una vignetta dedicata a un convegno ecologico, una delle vignette che campeggiavano sui giornali era quella del "fetore" di Israele che rende invivibile il pianeta.

"Quel che vogliamo, noi altri arabi, affermava Ben Bella nel 1982, è essere; ora noi potremo essere solo se l'altro non esiste". L'affermazione del leader della rivoluzione algerina, il marxista "naturale" come lo definivano i suoi sostenitori europei negli anni cinquanta, non è solo un programma omicida. È una scelta suicida.

Se l'altro non esiste, è il sentimento del limite a venire meno e con esso la capacità di controllare la distruttività interna ed esterna. L'esistenza dell'altro è la condizione per l'esistenza di ognuno. La negazione dell'altro è la morte dello spirito religioso più autentico, la sua trasformazione in un culto necrofilo.

Nel delirio del nuovo antisemitismo l'eliminazione del "cancro sionista" con un'atomica può valere il prezzo della morte di milioni di musulmani che perirebbero per la inevitabile reazione cui andrebbe incontro. Nella logica del terrorismo la morte dei palestinesi (della cui condizione dolorosa sono in molti a preoccuparsi solo ed esclusivamente in funzione anti israeliana) non costituisce un problema.

In questa nuova versione dell'antisemitismo islamico il conflitto che oppone Israele ai suoi vicini non è un confronto fra Stati o sistemi di alleanze internazionali. Non è più o solo, come nelle vecchie narrazioni, un conflitto fra "nord" e "sud", "imperialismo" e "antimperialismo", "Occidente" e "Terzo mondo", "democrazia" e "dittatura".  La guerra è fra "civiltà religiose" ed ha per obiettivo i regimi moderati filo-occidentali e nazionalisti accomunati  nell'accusa  di eresia e di tradimento dei valori  di un islam "immacolato" e "incontaminato".

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