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giovedì 22 agosto 2024

Enzo Sereni, il kibbutz Ghivat Brenner e la lotta antinazista


Enzo Sereni, partigiano anti-nazista che scelse Israele
di Mirella Serri





Ottant’anni fa moriva, ucciso a Dachau, l’intellettuale romano. Fondò un kibbutz nella Palestina mandataria ma volle tornare in Europa per combattere il Reich

22 Agosto 2024

Le baracche nel lager nel quartiere di Gries-San Quirino, a Bolzano, erano ancora in fase di allestimento quando Samuel Barda vi arrivò il 25 agosto 1944. Quella data segnò per Enzo Sereni, questo il vero nome di Barda, l’inizio della fine: di lì a poco venne trasferito in un luogo per lui del tutto sconosciuto, Dachau. Le torrette del campo che si delinearono all’orizzonte apparvero spaventose ai prigionieri. «Il capo-lager venne con un elenco e chiamò Barda, capitano paracadutista inglese», racconta un sopravvissuto. «Cominciò a sferrargli pugni sulla faccia e questo capitano, alto un metro e 55, non si mosse, rimase sull’attenti imperterrito come se gli facessero delle carezze».

Enzo Sereni

Il 17 novembre 1944 al “capitano” fu ordinato di cambiare cella, avvertendolo di non portare con sé la propria coperta perché ne potesse usufruire il nuovo inquilino. Il giorno successivo venne fucilato. Ricorrono adesso gli 80 anni dalla scomparsa dell’antifascista catturato dai nazisti della Todt nei pressi di Lucca dopo che si era lanciato dall’aereo. Enzo, che aveva trascorso tanti anni all’estero, ora voleva dar man forte alla Resistenza: Sereni-Barda fu uno dei primi ebrei italiani a trasferirsi in Palestina e a dar vita al kibbutz Givat Brenner.

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Era un intellettuale, un agente segreto, un pacifista intransigente e divenne un pioniere del sionismo socialista. L’esperienza di Sereni fu unica nella storia della lotta al nazifascismo. Forse anche per questo oggi il suo nome non occupa il posto che merita nelle pagine di storia. Come i suoi fratelli, Enrico e il più noto Emilio, antifascista e futuro senatore comunista, Enzo era nato a Roma in una famiglia borghese. Suo padre era il medico di Vittorio Emanuele III e suo zio Angelo era presidente della comunità ebraica romana.

Appena il regime si insediò al potere Enzo, ancora studente, intuì che l’aria stava diventando mefitica per chi teneva alla libertà. Laureato in filosofia, con gli amici Carlo e Nello Rosselli cominciò a coltivare il sogno di una “democrazia agraria” da realizzare in Palestina. Dopo la promessa di Lord Balfour di dare vita a un “focolare ebraico” e di destinare parte del territorio palestinese agli insediamenti ebraici, Enzo riteneva che fosse necessario rimediare «all’ingiustizia perpetrata nei confronti dei fratelli arabi».

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Era un socialista riformista e pensava che incentivando lo sviluppo economico si sarebbero realizzate nuove forme di convivenza tra arabi ed ebrei. Addio dunque ai dotti studi e ai libri: poco più che ventenne, con la giovane moglie Ada Ascarelli si trasferì in Erétz Yisra’él. Secondo lui in Palestina non c’era bisogno della speculazione filosofica ma del lavoro manuale. Si impiegò in un agrumeto e diede vita al primo kibbutz italiano.

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Al lavoro di bracciante rinunciò quando Hitler si insediò alla Cancelleria del Reich: l’Agenzia ebraica lo mandò in missione speciale in Europa. Eccolo per circa una decina di anni in viaggio senza sosta da Parigi a Danzica, da Praga a Vienna ad Amsterdam e poi anche in America.

Contrabbandava passaporti falsi e valuta; riuscì a portare in salvo migliaia di ebrei, in particolare molti giovani. Nel 1939 Enzo ritornò nella capitale e ottenne dai correligionari romani informazioni riservate sulle forze armate del Duce che poi trasmise agli inglesi. Mise anche in guardia gli ebrei capitolini, avvertendoli che dovevano lasciare il paese al più presto.

Nessuno gli credette: dopo i primi provvedimenti razziali, gli venne detto, le acque sembravano essersi calmate e la popolazione era solidale con gli ebrei. Quando iniziò la guerra Enzo fu costretto a una nuova rinuncia, mise in cantina l’utopia pacifista, si arruolò nella British Army. In Egitto si occupò dei prigionieri di guerra italiani e antifascisti. In Iraq aiutò altri ebrei nella fuga.

Dopo il rastrellamento da parte dei nazisti del ghetto di Roma prese la decisione che segnò la sua vita. L’Italia ora era occupata dai tedeschi e aveva bisogno di lui. Sua moglie, i suoi superiori in Palestina e anche gli ufficiali inglesi cercarono di dissuaderlo. Non poteva paracadutarsi: in quanto quarantenne era considerato troppo avanti con l’età, ma lo fece comunque.

Il compagno di volo che si lanciò con lui il 5 maggio del 1944 ricorda di aver sentito nella notte il richiamo del suo fischietto di salvataggio. Barda fu catturato, condotto a Verona e rinchiuso nei sotterranei. Poi il suo destino fu deciso in Germania. Sparì nel nulla. La moglie non ebbe più notizie.

Quando Ada rientrò nella Penisola, alla fine della guerra, divenne agente del Mossad, organizzò le spedizioni che portarono dall’Italia in Israele migliaia di ebrei con il tacito assenso del presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi (a lei è stata dedicata la miniserie tivù Exodus. Il sogno di Ada). Finalmente trovò a Dachau la scheda di Enzo: “Schmuil”, non c’era nemmeno il vero nome. Lo avevano ammazzato ignorando la sua identità.

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In un certo senso è rimasto senza una precisa identità anche nel Dopoguerra: a differenza di suo fratello Emilio, la cui lotta antifascista è stata sempre giustamente riconosciuta e valorizzata dal partito comunista con convegni, opere, scuole e strade a lui intestate, Enzo è stato trascurato dalla memoria collettiva. Era un combattente solitario e per la sua avventurosa solitudine, per il pionieristico coraggio, merita di essere riscoperto e ricordato. In questo momento storico, per il tenace pacifismo, per la critica al fascismo e al razzismo, per la predicazione della convivenza tra arabi e israeliani, la sua figura è più attuale che mai. Può diventare un simbolo nei nostri tempi di acuti conflitti.

di dimitribuffa01

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