Suicidio programmato di una militante femminista
Personalità libertaria. Va in albergo, e si uccide. Atteso un suo memoriale
Roberta Tatafiore, militante femminista e nota pubblicista, è morta ieri pomeriggio in un ospedale romano dove era ricoverata da mercoledì scorso. Si è uccisa con metodo e ha lasciato documenti scritti in cui spiega il senso della sua morte volontaria (un testamento metaforico è quello che consegnò alle pagine del Foglio, con cui collaborava). Quello stesso mercoledì, nella stanza di un albergo romano poco lontano da casa sua, Roberta Tatafiore ha attuato il suo progetto di autosoppressione. A quanto pare, la sua era una decisione presa da molto tempo, almeno alcuni mesi, maturata e accuratamente preparata, oltre che spiegata lucidamente nel memoriale che deve ancora arrivare ai suoi destinatari. Perché la Tatafiore aveva proprio all’ultimo annunciato il suo proposito per lettera, aveva spiegato motivi e modalità, ma aveva fatto in modo che gli amici che l’avessero ricevuta non potessero comunque più intervenire per dissuaderla o per salvarla. Voleva che fossero soltanto i suoi esecutori testamentari.
Di Roberta si può dire semplicemente che era fatta per la libertà. E’ stata questa, in fondo, la sua unica, vera e convinta militanza, la sua missione esistenziale. Ed è questa, per quel che è dato sapere, la sostanza profonda della sua scelta di morire, cresciuta nei mesi in cui i dibattiti sulla vita e sulla morte e su “chi appartiene a chi” hanno occupato la scena politica e le emozioni quotidiane. Non è azzardato leggere, nella sua scelta, l’affermazione passionale, prima che razionale, di un pieno possesso di sé, per la vita e per la morte, che per la Tatafiore è diventato manifesto di vita e di morte, a futura memoria di chi non potrà certamente dimenticarla.
Roberta Tatafiore ha sempre attraversato con passione e furia tutte le cose della vita. Non tollerava legami che non fossero quelli della lealtà e dell’amicizia liberamente scelta. E’ stata femminista negli anni ruggenti, e da quell’esperienza aveva tirato fuori il meglio. Aveva soprattutto conservato l’idea della centralità, nella sua vita, del rapporto con le donne, ma senza mai un’ombra di ideologia. Sbuffava, eccome, quando sentiva l’artificio e l’incombere del politicamente e femministicamente corretto. Ma totale era la sua voglia di capire, anzitutto, in prima persona, sempre e per sempre “partendo da sé”, come l’esperienza tra donne insegna. Aveva lavorato a lungo a Noidonne, periodico del femminismo di sinistra, poi aveva scritto per il quotidiano comunista il manifesto, aveva diretto per tre anni “Lucciola”, il mensile del Comitato per i diritti civili delle prostitute. Aveva vissuto intensamente nel mondo della sinistra, sempre con un piglio da stravagante, e da persona incapace di pregiudizi era riuscita a familiarizzare anche con i vecchi “nemici”. Il suo ultimo indirizzo di stampa conosciuto è stato il Secolo d’Italia, ma nel tempo ha scritto per il Giornale, per Libero e per il Foglio, cosa di cui questo giornale fu sempre lieto, oltre che per il sito donnealtri.it.
Prostituzione, pornografia, mercato del sesso: questi erano i campi “estremi” che aveva voluto sondare da sociologa che non si esprimeva in sociologhese, e sui quali aveva scritto saggi importanti, rimasti unici nel panorama italiano e ancora fondamentali per chi voglia capirci qualcosa fuori delle schematizzazioni. Il suo amico giornalista Daniele Scalise dice che “Roberta era una che non si arrendeva mai, che si parlasse di politica, di etica, di problemi personali. E soprattutto non si accontentava mai della prima spiegazione facile. Era una combattente ed era combattiva”. La sua ultima battaglia, lei che per tanto tempo aveva lavorato con l’Associazione dei malati di cancro fondata dal suo amico Francesco De Lorenzo, lei che era abituata a fare coraggio a chiunque avesse un problema, piccolo o grande, è diventata quella della libera morte, del suicidio come gesto da riabilitare, come esito possibile e addirittura desiderabile dell’esistenza (di un’esistenza piena come la sua).
Diventa difficile e anche doloroso, associare una persona bella e simpatica (e allegra, perché lo era) al gesto che ha voluto fosse il suo ultimo. Ci sarà tempo, ora, per decrittare davvero quello che Roberta Tatafiore ha voluto dirci, perché ha voluto dirci qualcosa di molto importante ma anche, necessariamente, qualcosa di misterioso, perché la morte di una persona lo è, sempre. Ora però non riusciamo a pensarla che come la solita Roberta Tatafiore, inguaribile curiosa. L’impaziente, che è andata a vedere che cosa c’è dall’altra parte.
Leggi Lasciatemi addormentare come Saffo di Roberta Tatafiore
1 commento:
Il suicidio di Roberta Tatafiore
di Adele Cambria
Me la ricordo, Roberta Tatafiore, che correva attraverso il solenne e semi-diruto cortile del Governo Vecchio occupato dalle donne, e la sua testa di ricci neri corti e lucenti sembrava esprimere visivamente il fermento, la passione intellettuale, che l’animava e non aveva mai tregua in lei: frequentava allora le lezioni del Centro Studi Virginia Woolf, dove arrivava, carismatica, a volte,anche Rossana Rossanda, e Roberta faceva, giovanissima, i suoi esordi di giornalista proprio sulle colonne del prestigioso «quotidiano comunista».
Poi, a un certo punto, incrociò Pia e Carla, la coppia femminile che aveva costituito anche in Italia il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute. Ed insieme a Maria Adele Teodori, giornalista e scrittrice Radicale da sempre, inventarono «Lucciola» - credo che Maria Adele pagasse di tasca propria quel giornale con distribuzione militante - e si divertirono, tutt’e due, Roberta e Maria Adele, una bruna e una bionda, a farsi protagoniste di un fotoromanzo a puntate con l’obiettivo di diffondere tra chi faceva quel «lavoro» la consapevolezza dei propri diritti.
Ben presto, alla metà dei ’70, il Movimento delle Donne si spaccò tra chi - Roberta Tatafiore in testa, Maria Adele Teodori, Michi Staderini (la prima ideatrice del «Virginia Woolf»)- riteneva la prostituzione un lavoro come un altro, e chi invece considerava l’invasione del proprio corpo come la peggiore delle umiliazioni. Dieci anni dopo, l’ideologia della prestazione sessuale femminile in cambio di soldi, elaborata da Roberta, si era già sviluppata in una direzione, quella del «sesso commerciale», che definirei trionfalistica: vendere il proprio corpo, accettare centinaia di contatti(invasioni)da parte di sconosciuti spesso ripugnanti, era una forma di emancipazione della donna che andava vista in modo pragmatico e senza giudizi morali o peggio «moralistici»”.
Era questo che Roberta sosteneva nel suo primo libro sull’argomento, «Sesso al lavoro - Da prostitute a sex workers». Un libro che fece ovviamente scandalo, e Tatafiore, laureata in sociologia, si aprì la strada verso la ricerca (Per l’Eurispes compilava il rapporto annuale sulla pornografia). Il suo linguaggio ormai era quello di una autentica businesswoman, io andavo alle sue conferenze, alle presentazioni dei suoi libri - dopo «Sesso al lavoro» fu «Uomini di piacere… e donne che li comprano» - e mi arrabbiavo regolarmente. Ma restavamo amiche, io un po’ vetero – accanita a sostenere che è l’esistenza del «cliente» il bandolo della matassa - e lei a ribattere: «Siamo state delle avanguardie, trent’anni fa, nella identificazione del “cliente”, come responsabile del fenomeno, ma ora voi che siete rimaste sulle stesse posizioni siete la retroguardia. E Dio non voglia che arrivi anche da noi una legislazione come quella svedese, contro il “cliente” e per la rieducazione delle prostitute!».
In quanto agli uomini di piacere, il discorso di Roberta era ancora più trionfalistico: di fronte a statistiche in Italia ancora insignificanti - uno dei prostituti bisex da lei interpellati calcolava in un rapporto da 1 a 15 le richieste che gli arrivavano da donne e da uomini - per l’autrice di «Uomini di piacere… e donne che li comprano», il potere del danaro congiunto al potere sessuale - che deriverebbe alle nuove «clienti» dall’aver scoperto con il femminismo il diritto al piacere(!)- sarebbe la molla che consente anche alle «donne comuni» di «permettersi il lusso» di pagarsi una certa quantità di sesso mercenario. Come sempre hanno fatto gli uomini.
Avevo perso di vista Roberta negli ultimi tempi. Sapevo che collaborava o aveva collaborato a tutti i quotidiani del centrodestra. Nessun giudizio, per carità! Al contrario, ammiro il suo coraggio: la sua morte così disperatamente eroica - un suicidio, non motivato, pare, da nessuna malattia inguaribile - é sostenuta da un discorso filosofico e letterario iniziato da oltre un anno; e che,approfondito in un testamento ancora non reso noto dalle amiche più vicine a lei, cui è stato indirizzato, forse aiuterà tutti e tutte a riflettere su un passaggio ineluttabile, a cui Roberta ha voluto accedere prima di noi. Per dare anche testimonianza di una società civile, quella italiana, che stenta a crescere su questi temi.
Il suo articolo di qualche mese fa, in difesa del diritto di morire di Eluana Englaro, ne è la prova. E chiudeva così: «Mi chiedo cosa accadrà, dopo la legge che il governo si appresta a varare, di quello spazio privato di anarchia compassionevole, agìta all’interno di relazioni informali… Temo che verrà fortemente ridotto. E correremo il rischio, tutti e tutte, di ritrovarci come ‘farfalle prigioniere’…» Lei ha voluto volare via prima.
16 aprile 2009
http://www.unita.it
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