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sabato 6 gennaio 2024

7 ottobre 2023 un punto di non ritorno

LONDRA – In Israele lo paragonano al processo ad Adolf Eichmann, il criminale di guerra nazista, soprannominato “l’architetto dell’Olocausto”, che venne catturato dal Mossad in Argentina dove si era rifugiato sotto falsa identità, trasportato clandestinamente a Gerusalemme, processato e condannato a morte nel 1962. 
Il procedimento giudiziario che polizia, esercito e magistratura stanno cominciando a preparare per il massacro del 7 ottobre scorso di 1200 israeliani e il rapimento di altri 240 da parte dei militanti di Hamas si profila come un evento simile.

Eichmann era uno dei responsabili dello sterminio di 6 milioni di ebrei nei campi di concentramento del Terzo Reich. 
I terroristi di Hamas si sono resi responsabili della morte del maggior numero di ebrei uccisi in un giorno dalla Shoa in poi.
Ma non sono soltanto i numeri a definire ciò che è accaduto. 
“Quello del 7 ottobre è stato un attacco senza precedenti per la sua crudeltà”, dice Kobi Shabtai, capo della polizia di Israele, al Wall Street Journal, che ha esaminato parte del materiale probatorio raccolto finora nell’indagine.
“Lo stato di Israele non si è mai trovato davanti a un crimine e a un’investigazione di queste dimensioni”   afferma Roi Sheindorf, ex vice procuratore generale israeliano. “Sarà uno dei processi più importanti della nostra storia”.

Gli inquirenti hanno analizzato testimonianze di membri di Hamas catturati, video filmati e postati sui social dagli stessi militanti palestinesi, materiali sequestrati a Gaza durante la controffensiva israeliana, oltre a testimonianze dei superstiti e degli ostaggi liberati. Hanno inoltre una enorme mole di prove rinvenute nei kibbutz e nei pressi del rave festival vicini a Gaza che sono stati al centro della strage.

I casi citati dal resoconto del quotidiano finanziario americano, così come da precedenti servizi dei media israeliani, sono agghiaccianti.

C’è il resoconto di una famiglia chiusa nella "safe room”, la “stanza di sicurezza”, il bunker che ogni abitazione israeliana ha per difendersi da attacchi di razzi o aggressioni terroristiche: gli uomini di Hamas hanno appiccato il fuoco alla casa per farli uscire, il padre invia ai parenti un messaggino telefonico dicendo “moriremo a casa nostra piuttosto che consegnarci a questi assassini”, i corpi di genitori e bambini verranno ritrovati soffocati dal fumo passato sotto la porta blindata.

Ci sono poi le identificazioni dei cadaveri, non ancora completate per le atroci condizioni in cui molti sono stati ritrovati: bruciati, tagliati a pezzi, maciullati. 
Su 800 corpi identificati tra le 1200 vittime, 37 sono minorenni, 6 hanno meno di cinque anni e 25 hanno più di ottant’anni, incluso un uomo di 94 anni
Ci sono morti con le mani legate dietro la schiena. 
Un giovane a cui prima di morire è stato cavato un occhio. 
Crani fracassati di botte. 
Innumerevoli esecuzioni con un proiettile alla nuca o alla tempia.

E poi ci sono le vittime femminili.
Almeno tre superstiti hanno testimoniato di aver subito violenze sessuali, inclusi stupri di gruppo, del resto testimoniati anche dal video postato sui social da un militante di Hamas, che grida attorniato dai suoi compagni sul corpo di una giovane israeliana seminuda presa in ostaggio: “Adesso me la fotto, me la fotto, me la fotto”
A questo va aggiunta la violenza efferata ed omicida sulle donne: vittime a cui è stato tagliato un seno, donne con ferite e perfino chiodi e coltelli lasciati infilati nella zona del bacino, un accanimento barbaro, mostruoso, come non si era mai visto nel pur lungo e feroce conflitto israeliano-palestinese.

Infine ci sono storie di eroismo, come quella di un padre che si è gettato su una granata per salvare i propri figli e morto dilaniato dall’esplosione. I medici legali hanno impiegato 15 giorni a identificarne i resti fra le macerie della sua casa bruciata in uno dei kibbutz a pochi chilometri dal confine con Gaza. Sabine Taasa, la vedova, e i due figli, scampati al massacro, ora vivono ospiti di una famiglia di amici ai sobborghi di Tel Aviv. Quattro degli assassini di suo marito sono stati catturati dalle forze israeliane. “Voglio andare al processo, guardarli in faccia e vederli condannati”, dice Sabine al Wall Street Journal.

In Israele vige la pena di morte, ma solo per reati definiti “estremi”, come i crimini di guerra.
 Nei 75 anni di esistenza dello Stato ebraico, è stata eseguita una sola condanna a morte: appunto l’impiccagione del nazista Eichmann. 
Si vedrà quali sentenze usciranno da questo processo che molti paragonano a quello del 1962 contro “l’architetto dell’Olocausto”.

articolo  di Enrico Franceschini, corrispondente da Londra per La Repubblica

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