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venerdì 6 dicembre 2013

fronte/verso di dicembre 2013: perchè conoscere è comprendere

conoscere il diritto è un diritto

fronte      verso
Perché Fronte/Verso? Il linguaggio specialistico è un codice a volte complicato da decifrare per i non addetti ai lavori. Sembra inevitabile che il linguaggio debba essere complesso perché complesso è il contenuto che esprime e tuttavia desideriamo dimostrare, a partire dalle sentenze, che è possibile farsi comprendere utilizzando un linguaggio accessibile senza rinunciare al rigore e alla completezza dei concetti ivi espressi.
Riportiamo in VERSO, sulla destra, il testo della sentenza nel rituale linguaggio giuridico dell’estensore per chi abbia interesse a leggerla nella sua forma originaria e a sinistra, a FRONTE, riscriviamo la sentenza con un linguaggio comprensibile a tutti, sperando di riuscire nella sfida di contribuire all’accessibilità del diritto, alla semplificazione del linguaggio e alla comunicazione responsabile.

Newsletter di www.studiolegalealesso.it
a cura di Avv. Ileana Alesso e di Avv. Maurizia Borea

Indice newsletter dicembre 2013:

1) Il  figlio abbandonato ha diritto di conoscere le proprie origini.
2) Divieto di parentopoli nelle Università e nelle Aziende ospedaliere.
3) Una vivace zuffa via mail legittima il provvedimento disciplinare della censura.
4) Legittimo l’affido temporaneo di una bimba ad una coppia gay.
5) Fisco. Dichiarazione infedele. Verifica tributaria e penale.
1) Il figlio abbandonato ha diritto di conoscere le proprie origini.
È incostituzionale la legge sull’adozione nella parte in cui  esclude la possibilità di verificare se sia modificabile la volontà della madre biologica di rimanere anonima.

Nel 1963 una donna nel dare alla luce una figlia decide di abbandonarla dichiarando di voler rimanere anonima. Nel 1969 la bimba viene adottata e successivamente viene a conoscenza della sua adozione solo in occasione della separazione del marito. A quel punto la donna si rivolge al  Tribunale per i minorenni di Catanzaro per conoscere la generalità della madre biologica sottolineando che la ignoranza sulle sue origini familiari aveva limitato le possibilità di diagnosi e cura per gravi patologie mediche che  richiedevano una anamnesi familiare. Nella richiesta inoltrata al Tribunale la donna specifica di non essere animata da spirito di rivendicazione nei confronti della madre che avrebbe potuto ricevere conforto dalla figlia “così chiudendo un conto con il passato”. Il Tribunale promuove giudizio di legittimità costituzionale della legge  sulla adozione dei minori, modificata dal Codice della privacy, nella parte in cui esclude la possibilità di verificare la volontà della madre biologica di continuare a restare anonima.
Il Tribunale si rivolge alla Corte Costituzionale poiché si trova nella difficoltà di trovare il punto di equilibrio tra il diritto del figlio di conoscere le proprie origini e il diritto all’anonimato della madre, ritenendo che all’anonimato della madre sia data ingiusta prevalenza rispetto al diritto del figlio.
La Corte Costituzionale condivide il suddetto ragionamento del Tribunale, ed evidenzia che:
1)               l’ordinamento dispone che, una volta fatta la scelta dell’anonimato, quest’ultima non sia più modificabile;
2)               il diritto della madre all’anonimato trova il proprio fondamento costituzionale nell’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi turbamento, che sia tale da generare pericoli per la salute psico-fisica di entrambi;
3)               però anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini costituisce un elemento rilevante nel sistema costituzionale di tutela della persona;
4)               dunque, ciò che costituisce malfunzionamento nel sistema è la sua rigidità, cioè, l’irreversibilità del segreto;
5)               la scelta dell’anonimato impedisce l’insorgenza di una “genitorialità giuridica” ma è irragionevole  che quella scelta risulti definitivamente preclusiva anche sul fronte dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”.
Grazie a questa sentenza il Tribunale potrà, con un procedimento che assicuri la massima riservatezza, interpellare la madre per chiederle  se  vuole uscire dall’anonimato.   
1) Il figlio abbandonato ha diritto di conoscere le proprie origini.
Corte Costituzionale, 22 novembre 2013, n. 278.

“……Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
1.– Il Tribunale per i minorenni di Catanzaro solleva, in riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), «nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica».
Premette il giudice a quo che una donna, nata nel 1963 e adottata nel 1969, esponeva di essere venuta a conoscenza della sua adozione soltanto in occasione della procedura di separazione e divorzio dal marito e che la ignoranza delle sue origini le aveva cagionato vari condizionamenti anche di ordine sanitario, limitando le possibilità di diagnosi e cura per patologie (nodulo al seno e disturbi ricollegabili forse ad una menopausa precoce) che avrebbero dovuto comportare una anamnesi di tipo familiare. Soggiungeva la istante che non era animata da spirito di rivendicazione nei confronti della madre biologica, la quale avrebbe potuto ricevere conforto dalla conoscenza della figlia, «così chiudendo un conto con il passato». Da qui, la richiesta di conoscere le generalità della madre naturale. Il pubblico ministero aveva espresso parere favorevole, ma il Tribunale rilevava che, a fronte della possibilità riconosciuta all’adottato che abbia compiuto i 25 anni di accedere ad informazioni riguardanti i propri genitori biologici, previa autorizzazione del Tribunale per i minorenni, tale possibilità era invece esclusa dalla disposizione oggetto di impugnativa, ove le informazioni si riferiscano alla madre che abbia dichiarato alla nascita – come nella specie – di non voler essere nominata, ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127).
A proposito della violazione dell’art. 2 Cost., il Tribunale osserva come la conoscenza delle proprie origini rappresenti un presupposto indefettibile per,.. .
per la sentenza integrale cliccare qui 
2) Divieto di parentopoli nelle Università e nelle Aziende ospedaliere.
L’Università può adottare provvedimenti che vietino ai professori il conferimento o il mantenimento di incarichi se nella struttura di appartenenza hanno parenti o affini entro il quarto grado.  
Il Rettore di una Università della  Campania adotta un decreto che, approvando l'atto di un Azienda ospedaliera universitaria, vieta ai docenti/medici di ricevere o mantenere incarichi di capo dipartimento e/o la direzione di una struttura se all'interno della struttura hanno parenti o affini entro il quarto grado. Due docenti universitari di una Facoltà di medicina e chirurgia, padre e figlio, impugnano al Tar Campania il decreto del Rettore sostenendo che non è legittimo introdurre una tale limitazione in assenza di una specifica disposizione di legge.
Il TAR respinge la loro tesi e i ricorrenti presentano appello al Consiglio di Stato che conferma il divieto e chiarisce che:
1)               l’incompatibilità per vincolo di parentela non è nuova nel panorama dell’ordinamento giuridico universitario, ed era già prevista, due secoli fa, dalla legge Crispi del 1890;
2)               anche nel 1948 il decreto legislativo  n. 1172 ha stabilito che “il coniuge, i parenti ed affini del professore ufficiale fino al quarto grado incluso, non possono essere assegnati, quali assistenti, alla cattedra di cui è titolare il professore stesso”;
la previsione, pertanto, ripete un principio presente nell’ordinamento fin dal 1890 e del resto la Costituzione prevede, all’art. 97, che le pubbliche amministrazioni debbano rispettare i principi di buon andamento e di imparzialità nella gestione della cosa pubblica. 
2) Divieto di parentopoli nelle Università e nelle Aziende ospedaliere.
Consiglio di Stato, Sezione VI, 4 novembre 2013, n. 5284.

“…Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Gli appellanti ..., rispettivamente padre e figlio, sono docenti presso la Facoltà di medicina e chirurgia … università degli studi di …, inseriti nello stesso dipartimento assistenziale (DAS) di morfopatologia.
In primo grado essi hanno impugnato il decreto del Rettore 2 agosto 2007, n. 2101, con il quale è stato approvato l'atto aziendale dell'Azienda Ospedaliera Universitaria della seconda Università degli Studi di …, limitatamente all'articolo 19, comma 14, nonché la deliberazione del direttore generale 6 settembre 2007, n. 736, di presa d'atto del citato decreto del Rettore.
Tale previsione dispone che non possono essere eletti e nominati "Direttore del D.A.I. (dipartimenti ad attività integrata) e non si può conservare l'incarico di direttore del D.AS. (dipartimenti assistenziali) qualora all'interno della struttura interessata vi siano parenti o affini fino al quarto grado incluso; la stessa disposizione si applica per la direzione di struttura complessa e di struttura semplice di cui ai successivo art. 26".
Il giudice adito, con la sentenza gravata, disattesa l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dall’Azienda ospedaliera e quella per carenza di interesse attuale contrapposta dalle difese resistenti, dopo aver precisato il regime normativo entro cui s’inquadrano l’atto aziendale e la disposizione preclusiva impugnata, ha respinto con il ricorso la tesi dei ricorrenti  …
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3) Una vivace zuffa via mail legittima il provvedimento disciplinare della censura.
Anche nel caso di corrispondenza strettamente privata i docenti sono obbligati ad utilizzare un linguaggio consono. Ciò è doveroso per garantire la tutela della affidabilità della Università e il prestigio dei docenti.

Nel 2007 a Milano ad un docente universitario viene inflitta la sanzione disciplinare della “censura” per aver utilizzato un linguaggio inappropriato durante un alterco via e mail  con un altro docente nella stessa Università.
Contro il decreto del Rettore che infligge la “censura”, il professore propone ricorso al TAR Lombardia. Nel processo il docente ammette di aver utilizzato un linguaggio “vivace” e “colorito”, ma asserisce che le espressioni adoperate sono largamente diffuse persino nel dibattito politico e comunque normali nell’ambito di un confronto informale tra due colleghi, tanto più se avviene via mail nell’ambito di una corrispondenza strettamente privata.
A tali argomentazione si oppone decisamente l’Università, a cui il TAR dà ragione, precisando che:
1)               sul piano etico si era verificata una indegna zuffa via mail
2)               il professore in questione aveva utilizzato un linguaggio  inaccettabile e non confacente al suo ruolo;
3)               il mezzo telematico usato, la casella di posta elettronica personale, non poteva attenuare la gravità del contenuto della mail;
4)               nelle Università, il fondamento della potestà sanzionatoria nei confronti dei docenti si rintraccia nell’esigenza di assicurare la affidabilità sociale dell’istituzione universitaria nonché  il decoro ed il prestigio dei singoli professori;
il comportamento del docente aveva senza dubbio dato origine a un episodio riconducibile sia all’“irregolare condotta”, sia ad una violazione dei doveri d’ufficio. Pertanto, la sanzione della censura del Rettore  era legittima e congrua. 
3) Una vivace zuffa via mail legittima il provvedimento  disciplinare della censura.
TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 21 novembre 2013, n. 2591.

“……Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Con l’odierno ricorso il ricorrente ha impugnato, chiedendone l’annullamento, il decreto del 31.7.2007 con cui il Rettore ….. gli ha irrogato la sanzione disciplinare della censura.
Questi ha riassunto, anzitutto, la vicenda che ha dato abbrivio al procedimento conclusosi con l’impugnata sanzione, caratterizzata da un alterco verificatosi con un altro docente della medesima Università,  …., il quale aveva organizzato una manifestazione nell’ambito del programma della Biennale di Venezia, invitando il ricorrente e i propri studenti a parteciparvi.
Senonché, in conseguenza della comunicazione – ad avviso del ricorrente tardiva – di annullamento della citata manifestazione a causa del maltempo, e delle difficoltà connesse alla fissazione di una successiva data, sarebbe iniziato uno scambio di e-mail tra i due docenti, nell’ambito del quale il ricorrente avrebbe utilizzato (in particolare, nella mail del 6.6.2007), “un frasario colorito non confacente alla figura istituzionale di professore associato dello scrivente e di professore a contratto del ricevente”, da ciò, ulteriormente, determinandosi, “la mancata promozione della partecipazione dei propri allievi alla iniziativa didattica promossa dal collega, a causa del risentimento personale più o meno giustificato dal non essere stato consultato sulla data di rinvio della manifestazione”.
A fondamento dell’impugnazione ha dedotto i seguenti motivi:
1°) violazione dell’art. 88 del RD 1592/1933 e del principio del contraddittorio; eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto di istruttoria;
2°) violazione dell’art. 88 del RD …
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4) Legittimo l’affido temporaneo di una bimba ad una coppia gay.
Ai fini dell’affidamento di un minore non rileva il concetto tradizionale di “famiglia”, bensì la sussistenza di una situazione paragonabile al contesto familiare sotto il profilo accuditivo e di tutela del minore. Di conseguenza, l’affido temporaneo può essere disposto anche in favore di una coppia omosessuale.

Una minore è affidata in via temporanea ad una coppia omosessuale, composta da due individui di sesso maschile.
Trascorsi alcuni mesi, al Giudice tutelare perviene richiesta di rendere definitivo il provvedimento di affido.
Il Giudice accoglie la richiesta, argomentando che:
1)               le caratteristiche fondamentali dell’istituto dell’affido consensuale eterofamiliare temporaneo dei minori e degli adolescenti sono: a) l’eccezionalità e la temporaneità, b) il consenso formale di chi esercita la potestà, c) il mantenimento dei rapporti con i genitori, proprio in vista del rientro nella famiglia d’origine, d) l’inserimento del minore in una “famiglia” con cui non ha rapporti di parentela (o, comunque, oltre il 4° grado);
2)               esaminando la normativa in materia (legge 184/ 1983) si riscontra che il concetto di “famiglia” non trova una precisa definizione, ma si riferisce ad un “contesto”, per così dire, in grado di assicurare al minore il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno;
3)               considerato che vi è la mancanza di qualunque richiamo al matrimonio quale vincolo che unisca gli affidatari, che l’affido è consentito anche ai singoli, che, infine, in caso di adozione il legislatore ha esplicitamente richiesto che gli adottanti siano uniti in matrimonio, si deve ragionevolmente dedurre che la lacuna in questione sia frutto di una precisa scelta del legislatore, che ha voluto ampliare le possibilità di affido temporaneo dei minori;
d’altronde, la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che “in assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza, costituisce mero pregiudizio la convinzione che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”.
4) Legittimo l’affido temporaneo di una bimba ad una coppia gay
Tribunale di Parma, Decreto n. 74546 del 2 luglio/18 novembre 2013.

“…Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Il 12 aprile 2013 perveniva a questo Ufficio la richiesta di rendere esecutivo il provvedimento di affido eterofamiliare dal 18 febbraio 2013 al 31 dicembre 2013 in favore della minore …., nata il … in .., disposto il 21 febbraio 2013 dal Comune di …– Settore Welfare e Famiglia e sottoscritto dal dirigente dello stesso dr. ...., dalla quale risultava che la minore predetta era stata affidata alla famiglia composta da …., nato il…. a …), e ..., nato il….a …..
Il 21 giugno 2013 il Comune di … – Servizio Minori produceva documentazione integrativa concernente il positivo esito del vaglio condotto dal competente Servizio Sociale circa l’idoneità della coppia composta da …. e …. a rivestire il ruolo di famiglia affidataria per la minore, all’esito di un percorso intrapreso il 5 aprile 2011 e consistito in nove colloqui e una visita domiciliare [1].
La peculiarità del caso concreto – a quanto consta a questo Giudice connotato da assoluta novità – rende opportuno ricostruire il quadro normativo di riferimento, al fine di individuare l’esatto significato del termine “famiglia” nell’ambito dell’ordinamento vigente, con specifico riferimento alla disciplina dell’affido consensuale eterofamiliare temporaneo dei minori e degli adolescenti, istituto che, come noto, non è preordinato all’adozione, ma al perseguimento del benessere dei bambini, assicurando a quelli in gravi difficoltà un contesto di cura amorevole da parte di persone a ciò idonee. Le caratteristiche fondamentali dell’istituto in commento sono, infatti: l’eccezionalità e la temporaneità; il consenso formalizzato degli esercenti la potestà; il mantenimento dei rapporti con i genitori in previsione del rientro nella famiglia d’origine; l’inserimento del minore viene in una “famiglia” che non ha con lui legami di parentela (oppure oltre il 4° grado).
Viene dunque in rilievo, a livello di normativa primaria, …
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5) Fisco. Dichiarazione infedele. Verifica tributaria e penale.
Nel processo penale per reati fiscali il giudice deve dare prevalenza ai “fatti” rispetto ai dati formali su cui si appunta l’indagine tributaria. Può anche darsi, quindi, che la verifica in sede penale contrasti con quella in sede tributaria.

Un contribuente è condannato a pagare un’ingente somma al Fisco per il reato di Dichiarazione infedele, perché, al fine di evadere le imposte sui redditi e l’IVA, ha indicato nelle dichiarazioni per un dato anno elementi attivi per importi inferiori a quelli effettivi.
Il suo ricorso contro l’accertamento dell’Agenzia delle entrate è respinto, sia in primo grado, sia in appello, così ricorre in Cassazione.
A sostegno della tesi difensiva, il contribuente afferma l’erronea modalità di accertamento dell’agenzia delle entrate che si è basata su presunzioni semplici. La Corte di Cassazione non è dello stesso avviso, e chiarisce che:
1)               la verifica a cui è chiamato il  giudice penale può sovrapporsi ed anche confliggere con quella operata dal giudice tributario;
2)               in sede penale deve darsi prevalenza ai fatti rispetto ai criteri di natura formale che caratterizzano invece l’ordinamento tributario;
3)               nel caso in esame l’accertamento dell’Agenzia delle entrate è stato condotto in base a una norma che prevede che il reddito sia rettificato nel caso di incompletezza, falsità o inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulti dall’ispezione delle scritture contabili. Oppure che risulti dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili;
4)               ove sussistano i suddetti presupposti, l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precisi e concordanti;
la verifica in sede penale può quindi contrastare con i risultati di quella condotta in sede tributaria e nel caso in esame il contribuente è stato condannato per evasione fiscale.    
5) Fisco. Dichiarazione infedele. Verifica tributaria e penale
Corte di Cassazione, Sez. III penale, 18 novembre 2013, n. 46165.

“…Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Con sentenza del 21 novembre 2012, la Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Cremona del 17 febbraio 2011, con la quale l’imputato era stato condannato, per il reato di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, limitatamente all’importo di € 287.596,90 di maggiore imponibile, perché, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, indicava nelle dichiarazioni annuali per l’anno 2004 elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Si deduce, in primo luogo, l’erronea applicazione della disposizione incriminatrice, in relazione all’art. 39, secondo comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 55, terzo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che l’accertamento della Agenzia delle entrate fosse stato effettuato in base all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, perché non avrebbe tenuto conto che nell’avviso di accertamento si faceva riferimento all’art. 39, secondo comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973. Si tratterebbe di un profilo rilevante perché la verifica di cui all’art. 39, secondo comma, lettera d), sarebbe stata condotta sulla base di presunzioni semplici, prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dal primo comma dello stesso articolo. La difesa prosegue evidenziando che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, il fatto che la riscossione di alcuni affitti per...
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