Vivere per la proposta di legge Eutanasia Legale

Libertà sessuale, libera sessualità- 1976 - Adele Faccio

Piano improvisation di Salvatore Maresca Serra

Alba Montori su Facebook

martedì 5 luglio 2011

EMERGENZA CARCERI L'amnistia non fa la riforma - di Mauro Mellini





Lo sciopero della fame di Marco Pannella cosa porterà nell’infinita lotta per la riforma del sistema carcerario? La paura è che non si muova nulla, che come ogni volta che si è mesa in campo un’amnistia, il risultato sarà quello di lasciare in carcere chi già c’è e di non avviare la vera, grande riforma del sistema che servirebbe per ridurre tutto il carico di detenuti e per creare carceri che siano veramente degne di un paese democratico.

Le amnistie periodiche della storia della (Prima) Repubblica hanno sempre escluso i reati più gravi, risolvendosi solo in una diversa graduazione del trattamento punitivo.
Marco Pannella, mette ancora una volta in giuoco la sua esistenza per dar voce ad una protesta. Quella sacrosanta, umanissima, carica di indignazione per le condizioni dei detenuti ammassati nelle carceri del nostro Paese.


Per un sistema giudiziario che studia sempre nuove norme penali e procedurali, per aumentare il rifornimento di sempre nuova carne da galera ed il prolungamento dello stoccaggio, che proclama l“assoluta necessità” di ogni invasiva e repellente forma di “prova” destinata a tale rifornimento, demonizzando le “fisime garantiste”, che imporrebbero di preferire che un reo resti impunito, piuttosto che un innocente sia condannato e mandato all’ammasso e che, soprattutto imporrebbero di ridurre al massimo la carcerazione preventiva, praticata su un “materiale umano” destinato, pur con lo scarso rispetto del principio “in dubio pro reo”, ad essere poi, in alta percentuale, dichiarato innocente senza manco una parola di scusa.


Protesta ed indignazione non hanno necessariamente parte politica, né ubbidiscono a criteri di coerenza, né possono essere valutati a seconda degli sbocchi che ad esse possono seguire. Un’azione politica può raccoglierle, può trarne forza, può alimentarle. Ma, in sé, non sono “politica” (nel senso più elevato del termine) se non in quanto “tutto è politico”.


Se la protesta ed il digiuno di Pannella hanno ottenuto attenzioni e consensi che altre volte sono mancati a simili iniziative, ciò non è dovuto soltanto al fatto che per, fattori molteplici e diversi, anche molti scettici si sono accorti che si tratta di una messa in giuoco, di un rischio estremo e che estrema appare la determinazione nel portare avanti una così rischiosa “operazione”.
Pannella ha avuto consensi a destra e a sinistra da Feltri a Costanzo, dal Presidente Napolitano. E da Palamara (quello dell’ANM). Si direbbe che sia riuscito a coinvolgere soggetti disparati, ottenendo un successo, francamente, insperato. Se a ciò dovesse seguire veramente la nomina a Senatore a vita da parte del Capo dello Stato, allora, a parte il valore di riconoscimento per la persona di Marco, si dovrebbe dedurne che l’attenzione e la condivisione debbano necessariamente superare lo stadio emozionale per tradursi anche in qualche concreto provvedimento.
Quale? Pannella, in verità, non si è limitato ad esprimere sdegno e protesta. Ha lanciato, con la testarda insistenza di cui è capace, la parola d’ordine: “amnistia”. E’ chiaro che con questa lo stadio della mera espressione emozionale è superato.
Ed è altrettanto chiaro che il consenso o il dissenso all’iniziativa di Pannella non può limitarsi alla valutazione morale di una sua scelta esistenziale nell’affrontare drammi del nostro tempo. Chiedere l’amnistia è una determinazione politica (al pari di quella che dovrebbero compiere Parlamento e Presidente della Repubblica, per concluderla) e nessuno può permettersi il lusso di una risposta di consenso senza assumersi una responsabilità politica, la responsabilità, anzitutto di capire quello che vorrebbe dire “amnistia”, di conoscerne e valutarne l’eventuale portata.
Dalla quale, in ultima analisi, dipenderebbe l’incidenza del provvedimento stesso sulla situazione carceraria. E nel resto. A cominciare dalla specifica finalità che Pannella attribuisce a questa invocata amnistia: quella di costituire il mezzo, di creare le condizioni, per le necessarie riforme della giustizia.


Pannella, mentre non si è prodigato in spiegazioni sulla portata del provvedimento invocato, ne afferma la strumentalità come chiave e condizione per “le riforme”, come un assioma. E qui, quale che sia il grado di coinvolgimento emozionale nella protesta e nelle sue umanissime finalità, non si può tacere il più totale dissenso.
Le amnistie non sono mai servite per arrivare a riforme vere ed auspicabili per la giustizia. L’ultima amnistia, quella coeva al codice del 1989, è stata proclamata proprio come “l’amnistia della grande riforma”. Al pari di tutte quelle che l’avevano preceduta con puntuale periodicità, non è servita che ad una “scolmatura”, al solito, delle carceri sovraffollate.
Il nuovo codice, che conteneva (e contiene) un potenziale eversivo non solo per la giustizia, oltre ad una serie di bestialità, non ha affatto limitato l’accatastamento di materiale umano nelle carceri né ha ridotto la percentuale dei detenuti in attesa del giudizio (presunti innocenti) rispetto ai condannati, tra gli ospiti degli istituti penitenziari.
Ma, soprattutto, di quale amnistia si tratterebbe? Forse il successo fin qui ottenuto dall’iniziativa di Pannella è legato proprio all’aver rilasciato assolutamente nel vago questo punto. Ma, un risultato pratico non può non passare attraverso una difficilissima risposta a questo interrogativo.
Le amnistie periodiche della storia della (Prima) Repubblica hanno sempre escluso i reati più gravi, risolvendosi in una diversa graduazione del trattamento punitivo dei reati con una estremizzazione (diminuzione ulteriore della effettiva punizione dei reati meno gravi senza proporzionale riduzione delle pene effettive per i più gravi).
Tale fenomeno non sarebbe, poi una sciagura se già non avessimo un ricorso parossistico all’aumento delle pene per i reati “alla moda”, oggetto delle “campagne”. Le pene per i reati di mafia, ad esempio, sono stati portati a livelli inconcepibili. Ed è per tali reati che l’abuso di mezzi di prova incivili, come quello della gestione dei pentiti, è presumibile abbia prodotto errori giudiziari devastanti per la pesantezza delle pene ingiustamente inflitte e mandati in galera innocenti che quando poi si parlava di amnistia, sarebbero “mafiosi” da escludere.
Nessuno, salvo, forse, Pannella, penserà, al dunque, di proporre l’amnistia, o l’indulto, per tali reati. E potremmo continuare. Così saremmo alla solita operazione di “scolmatura” di cui abbiamo fatto esperienze tristissime nei decenni precedenti. Ma il discorso diventa ancora più arduo quando si parla delle “riforme”, cui la “scolmatura” delle carceri dovrebbe servire.
Qui è chiaro che tra i molti che pure sono accomunati dall’odierno plauso a Pannella, vige la confusione delle lingue. Di riforme parla pure Palamara, presidente dell’ANM. E’ chiaro che intende altro da quel che intende Feltri, anche se è probabile che un po’ tutti evitino accuratamente una valutazione politica d’assieme, organica ed a fondo del problema.
Certo, Pannella, non ha mai voluto prendersi il ruolo di riformatore della giustizia. Ha sempre rifiutato ogni discorso di approfondimento ed ogni confronto autentico al riguardo. Ha avuto intuizioni acute, ha evocato valori essenziali, ha saputo toccare corde emozionali con grande abilità. Ha pure, in verità, nella sua lunga storia, oscillato tra giustizialismo e garantismo.
Ma questo non è certo, oggi, un demerito. Né a lui, che mette in giuoco la sua vita per un gesto di protesta, si può chiedere di trarne conseguenze politicamente praticabili e coerenti. Ma il gruppo di quelli che gli sono attorno e condividono la sua iniziativa, promuovono manifestazioni e vogliono animare dibattiti, tanto più se insistono nel definirsi “partito”, non possono non farsi carico di un minimo di concretezza nelle proposte e nello sviluppo dell’azione intrapresa.
Direi che è anche un dovere verso Marco Pannella. Ma, soprattutto, credo che il rispetto che si deve a chi soffre in carcere, comporta il dovere di non rovinare il valore di una solidarietà e di una comune protesta con l’agitazione di una “soluzione” che non sia politicamente formulata e sostenuta, così da rappresentare, piuttosto, un alibi per quanti di questa nostra povera giustizia hanno fatto strumento delle loro velleità politiche e dei privilegi corporativi.
Parlare con disinvoltura di amnistia, necessario presupposto per le riforme, è, infatti, un alibi autorevole ed insospettabile fornito a chi le riforme è pronto ad inventarsene molte purchè lascino le cose come sono (e chi sta in galera, dove sta)



fonte: L'OPINIONE delle libertà

Nessun commento: