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mercoledì 21 novembre 2007

CALCIO: RELIGIONE PER DECEREBRATI

"dio pallone"

da "la repubblica"

Preparano le trasferte, cercano la lite: ecco come il tifo
ha abbandonato la dimensione tribale ed è diventato religione
La messa profana del "dio pallone"
di GABRIELE ROMAGNOLI

ROMA - L'ecumenismo: ovvero seguaci di diversi credi, ciascuno
sotto le proprie insegne, protestando contro l'offesa alla comune
pratica. La liturgia: ovvero la celebrazione ritualistica officiata
in indumenti dalle tinte particolari, attraverso la ripetizione di
formule, con il ricorso a parole
come "fede", "sacrificio" , "martirio" e atti significanti, il più
toccante dei quali è la deposizione sul sepolcro di una stoffa sacra
perché simbolica. La trascendenza: ovvero non è a uomini che questo
tributo di popolo si rivolge, ma alla loro incarnazione in entità
contraddistinte da termini solo apparentemente concreti: "la
maglia", "i colori", "la bandiera", in realtà allusivi a qualcosa
che va oltre il tempo e non ammette altro all'infuori di sé.

Tre indizi fanno una prova: qui e ora il tifo calcistico ha
abbandonato la dimensione tribale (cara a Desmond Morris) per quella
confessionale, da mimesi della guerra è divenuto mimesi della
religione. E che poi possa produrre guerre di religione, va da sé.
Tutti i sintomi erano presenti fin dall'inizio. Come alla religione,
al tifo si viene educati. Si nasce in ambiente predisposto e la fede
(giacché è proprio a questo termine che si fa riferimento, che si
parli di cattolicesimo o della Sampdoria) non è quasi mai una
scelta, ma un'attribuzione, per derivazione geografica o familiare.

Nasci in Egitto: sei musulmano o, in casi limite, cristiano copto.
Nasci a Bergamo: sei dell'Atalanta oppure, per eredità paterna o
eresia di comodo, del Milan. L'affiliazione ha una connotazione
islamica: non consente la conversione. Si può smettere di praticare
il tifo, diventare agnostici e passare la domenica al cinema, ma non
è lecito cambiare curva. Ogni fede alimenta una propria mitologia di
riferimento che viene trasmessa ai nuovi adedpti come un
nient'affatto laico catechismo: la leggenda del "Grande Torino"
martire, onorata con pellegrinaggi a Superga, quella del
Bologna "che tremare il mondo fa" e (guarda caso il
riferimento) "gioca come solo in paradiso" (allegoria d'angeli
terzini, il cherubino Furlanis e il serafino Pavinato), quella del
Milan di Arrigo Sacchi, devoto alla Trinità composta da Gullit, Van
Basten e Rijkard (segue dibattito per stabilire se a quel punto il
destino fosse predeterminato o ancora restasse spazio per il libero
arbitrio, ovvero la residua rilevanza di Colombo e Massaro).

Troppo spesso scambiati per dei, i calciatori sono soltanto
temporanei profeti della fede d'appartenenza. Venerati quando
vestono la "maglia", i "colori, la "bandiera" possono essere
lapidati (neppure troppo figurativamente) appena l'abbandonano. Il
popolo non adora idoli, ma vestigia. Lo spogliatoio della squadra è
il tabernacolo: sacro è qualunque cosa ne esca. Un qualsiasi Tonetto
che gioca nel Lecce passa indifferente sul prato dell'Olimpico, ma
diventa oggetto d'amore se lo fa vestendo l'altra maglia
giallorossa.

Se ne deduce l'effetto di transustanziazione che quella stoffa ha
agli occhi della curva. La quale, assisa o in piedi a seconda delle
modalità prescritte, celebra il rito. Officia lo speaker: legge la
formazione proclamando metà del nome del giocatore e aspettando la
tonante risposta dei fedeli.

"Simoneeee.. .."

"Perrottaaa! !!!!!!!"

"Per i nostri fratelli che vivono nella pace eternaa...."

"Ascoltaci o Signore!".

Che di rito si tratti è evidente non solo ai sociologi più attenti,
ma perfino al conduttore televisivo Marco Mazzocchi quando,
commentando il fallimento dell'esperimento sincretico di Bonolis,
che accostava sacro e profano in una messa cantata di due ore,
chiosava: "Il cazzeggio va distinto dal momento liturgico della
partita". E così sia.

Dalla religione il calcio desume anche la tendenza dogmatica: non
solo il Papa è infallibile, anche Totti dice sempre la verità, a
prescindere. Come la religione genera fondamentalismi, accompagnati
da distinguo di circostanza ("non bisogna confondere l'Islam con un
pugno di fanatici", "il cristianesimo con un gruppo di razzisti che
impugna la croce", "il tifo con pochi facinorosi armati di
coltello"). Ordina sacerdoti che perdono credibilità, predicano male
e peggio razzolano, si lasciano corrompere da fin troppo resistibili
tentazioni. Eppure sopravvive a ogni scandalo o degenerazione (il
calcio scommesse e Calciopoli, come, d'altro lato, i preti pedofili
e le collaborazioni con i regimi autoritari).

Entrambi si derubricano da "sogno" a "bisogno". Perdono le ali. Non
si crede in quanto sfiorati dal soffio del Sovrannaturale o ad esso
anelanti, ma per la necessità di avere un'identità da opporre alla
complessità del mondo. Lo stesso per cui ci si schiera con la Lazio
e gli Irriducibili, la Juventus e i Drughi. Che poi sia tutto
fittizio e, alla lunga, fallimentare, poco conta. In quale altro
ambito si sarebbe potuta invocare la "mano di Dio" a legittimare una
irregolarità, ottenendo il plauso adorante dei seguaci?

Perfino l'appartenenza a uno stesso schieramento politico non
avrebbe esentato dal pudore, se non dalla vergogna. Il calcio no. E'
convinzione assoluta, sottomissione anche a ciò che non si
comprende, abbandono a un destino condiviso evocato nelle strofe di
una canzone comune a tutte le tifoserie: "Che sarà sarà/dovunque ti
seguirem/comunque ti sosterrem? Che sarà sarà". Ora e sempre, nei
secoli dei secoli, amen.

(19 novembre 2007)

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