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giovedì 30 gennaio 2025

Si festeggi solo che sono vive.

 La prigionia delle israeliane rapite raccontata da loro stesse.

di Nathan Greppi  

Una delle foto che più sono rimaste impresse nella memoria collettiva dei rapimenti del 7 ottobre ritrae la ventenne Naama Levy mentre viene caricata a forza su un furgone. Sui pantaloni spicca una grossa macchia di sangue, probabile conseguenza di una violenza carnale. 

Dopo essere stata recentemente liberata assieme ad altre tre soldatesse rapite (Liri Albag, Karina Ariev e Daniella Gilboa), sono emersi i racconti sulle loro condizioni durante i 477 giorni in cui sono state prigioniere di Hamas. Come spiega il sito israeliano “Ynet”, le storie sono state raccolte dai media presso il Centro medico Rabin di Petah Tiqwa, dove le ragazze stavano affrontando le dovute cure in compagnia dei loro familiari. 

Naama Levy è stata tenuta da sola per un lungo periodo, prima di potersi ricongiungere con le sue amiche. Le quattro giovani donne hanno cercato di passare il tempo tenendosi in esercizio e rimanendo attive, malgrado le condizioni precarie e il cibo scarso. Nonostante i sequestratori non permettessero loro di tenersi per mano né di piangere, sono riuscite comunque a sostenersi a vicenda. 

Daniella Gilboa e Karina Ariev sono state tenute insieme per la maggior parte del tempo e il loro legame, formatosi già nella base di Nahal Oz prima del loro rapimento, è diventato ancora più forte. 

Intervistate dall’emittente televisiva israeliana Keshet 12, le ragazze hanno raccontato che una di loro è rimasta prigioniera per molto tempo in un tunnel senza luce dove era difficile persino respirare. Nel corso della lunghissima prigionia sono state continuamente spostate da un posto all’altro. C’erano periodi in cui non veniva dato loro da mangiare, ma allo stesso tempo erano costrette a cucinare per i terroristi e a pulire le loro toilette. Spesso potevano sentire la radio e più raramente vedere in tv le proteste degli israeliani per chiederne la liberazione. 

Durante la prigionia alcune di loro sono state tenute in ostaggio dentro le case dei civili di Gaza, dove giocavano con i bambini dei carcerieri. 

Non è stato loro concesso di ricevere cure mediche adeguate, comprese quelle per le ferite riportate il 7 ottobre. 

Per lungo tempo non hanno avuto neanche il permesso di farsi una doccia o anche soltanto di lavarsi. 

Ai media israeliani il padre di Naama, Yoni Levy, ha dichiarato: «Per 15 mesi ho parlato con voi giornalisti molte volte. Dal profondo del cuore mi sono rivolto ai politici, ai media, al popolo d’Israele e ai leader mondiali. Li ho supplicati come padre di cercare di salvare mia figlia dall’inferno. Questo momento, qui e oggi, è ciò per cui ho pregato e che ho immaginato e sperato per 477 giorni, non solo per me stesso ma per tutti noi. Il 7 ottobre il nostro Paese si è frantumato in migliaia di pezzi, lasciando le famiglie distrutte per sempre. Quello è stato il momento in cui le nostre vite personali sono state scosse e siamo diventati noti come “la famiglia di Naama Levy, la vedetta rapita”». Yoni Levy ha poi aggiunto: «Ora Naama è al sicuro con noi, circondata da parenti e amici, ma la lotta non è finita. Ci sono ancora 90 ostaggi che dobbiamo riportare a casa. Sono i nostri figli e le nostre figlie, le fondamenta stesse su cui è costruito il nostro Paese. Non ci sarà guarigione né risveglio fino a quando non sapremo che lo Stato d’Israele è il padre e la madre di ognuno di noi»

da il quotidiano LA RAGIONE 30 Gennaio

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