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sabato 17 luglio 2010

RODOTÀ su Repubblica 14/07 MATRIMONI GAY E DOVERI DEL PARLAMENTO

MATRIMONI GAY E DOVERI DEL PARLAMENTO

Repubblica — 14 luglio 2010 pagina 45 sezione: COMMENTI

In tutto il mondo l' agenda dei diritti si compone e si scompone. Si discute
della libertà di espressione su Internet. I diritti dei migranti sono al
centro di un importante intervento di Obama, mentre in Europa producono
manifestazioni di xenofobia e razzismo che influenzano le elezioni
nazionali. La crisi economica incide sui diritti dei lavoratori, impone
condizioni che violano il principio del "decent work", della dignità del
lavoro. Le ultime notizie dall' Islanda aggiungono un altro paese a quelli
che già hanno riconosciuto il matrimonio omosessuale, mentre in Italia la
comunità gay sta conoscendo inedite polemiche. A queste reagisce un
esponente autorevole di questo mondo, Aurelio Mancuso, affermando che «di
queste beghe la comunità non vuol sentire parlare, la comunità vuole
diritti», aggiungendo che si tratta di una richiesta rivolta a tutte le
forze politiche, senza distinzioni. Una mossa "politicista" o una giusta
sollecitazione istituzionale? Il Parlamento italiano è inadempiente, ed è
bene che sia richiamato ai suoi doveri. Con una recentissima sentenza,
infatti, la Corte costituzionale ha ribadito la rilevanza costituzionale
delle unioni omosessuali, poiché siamo di fonte ad una delle "formazioni
sociali" di cui parla l' articolo 2 della Costituzione. Da questa
constatazione la Corte trae una conclusione importante: alle persone dello
stesso sesso unite da una convivenza stabile «spetta il diritto fondamentale
di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei
modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i
connessi diritti e doveri». Sono parole impegnative: un "diritto
fondamentale" attende il suo pieno riconoscimento. Non è ammissibile,
dunque, la disattenzione del Parlamento, perché in questo modo si privano le
persone di diritti costituzionalmente garantiti. Qualcuno, al Senato e alla
Camera, porrà con la dovuta durezza questa domandae chiederà che si riapra
almeno la discussione sulle unioni di fatto? Ma la Corte va oltre. Pur
ribadendo che l' attuale disciplina costituzionale del matrimonio non
permette di ricomprendere al suo interno la disciplina delle unioni
omosessuali, fa due affermazioni rilevanti. La prima è di carattere
generale. Si sottolinea che le norme attuali, che vincolano il matrimonio
alla differenza di sesso, non possono essere superate attraverso una
interpretazione dei giudici costituzionali. Questo vuol dire che, preclusa
al giudice, la via del mutamento dell' articolo della Costituzione sul
matrimonio, per renderlo compatibile con le unioni omosessuali, potrebbe
essere percorsa dal legislatore. Si può obiettare che una revisione
costituzionale in una materia così scottante appare improbabile. E qui
interviene la seconda affermazione, che mostra come non sia corretto
prospettare una incompatibilità assoluta tra il modello del matrimonio
tradizionale e quello dell' unione omosessuale. È sempre la Corte che parla:
«Può accadere che, in relazioni a ipotesi particolari, sia riscontrabile la
necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia
coniugata e quella della coppia omosessuale». Una barriera è caduta. Il
Parlamento non potrà usare l' argomento, utilizzato in passato, di un
presunto obbligo di non creare "contiguità" tra disciplina del matrimonio e
disciplina delle unioni di fatto. Proprio perché i giudici costituzionali
sono stati guidati da tanta consapevolezza, ci si poteva aspettare una
attenzione maggiore per il modo in cui il tema è affrontato dalla Carta dei
diritti fondamentali dell' Unione europea. Qui si coglie una netta
discontinuità. Nell' articolo 21 si vieta ogni discriminazione basata sulle
tendenze sessuali. E, soprattutto, nell' articolo 9 si stabilisce che «il
diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le
leggi nazionali che ne disciplinano l' esercizio». La distinzione tra "il
diritto di sposarsi" e quello "di costituire una famiglia" è stata
introdotta proprio per consentire la costituzione legale di unioni distinte
da quelle tra persone di sesso diverso, dunque anche quelle tra omosessuali.
E il passo avanti rappresentato dalla Carta diventa ancor più evidente
proprio se si fa un confronto con quel che dispone l' articolo 12 della
Convenzione europea dei diritti dell' uomo del 1950, dov' è scritto che
«uomini e donne hanno diritto di sposarsi e di costituire una famiglia
secondo le leggi nazionali che disciplinano l' esercizio di tale diritto».
Confrontando questo articolo con quello della Carta, si colgono differenze
sostanziali. Nella Carta scompare il riferimento ad "uomini e donne". Non si
parla di un unico "diritto di sposarsi e di costituire una famiglia", ma si
riconoscono due diritti distinti, quello di sposarsi e quello di costituire
una famiglia. La conclusione è evidente. Nel quadro costituzionale europeo,
al quale l' Italia deve riferirsi, esistono ormai due categorie di unioni
destinate a regolare i rapporti di vita tra le persone. Due categorie che
hanno analoga rilevanza giuridica, e dunque medesima dignità: non è più
possibile sostenere che esiste un principio riconosciuto - quello del
tradizionale matrimonio tra eterosessuali - ed una eccezione (eventualmente)
tollerata - quella delle unioni omosessuali. In un paese che onora la
civiltà della discussione e rispetta i diritti delle persone, queste
dovrebbero essere le linee guida per il legislatore. Poiché, invece, questi
temi sono ormai oggetto della prepotenza ideologica di chi vuole imporrei
propri valori, definendoli non negoziabili, può essere utile ricordare che
il mondo cattolico non è riducibile alle gerarchie vaticane e a chi se ne fa
portavoce. Nel 2008 la rivista dei gesuiti, Aggiornamenti sociali, ha
pubblicato una serie di scritti sulle unioni omosessuali, con i quali si può
dissentire su alcuni punti, ma che prospettano una conclusione assai
impegnativa. Al politico cattolico si dice che «non spetta al legislatore
indagare in che modo la relazione viene vissuta sotto altro profilo che non
sia quello impegnativo dell' assunzione pubblica della cura e della
promozione dell' altro». E si sottolinea che, una volta riconosciuto il
valore sociale della convivenza, «risulterebbe contrario al principio di
eguaglianza escludere dalle garanzie certi tipi di convivenze, segnatamente
quelle tra persone dello stesso sesso». Poiché si tratta di diritti
fondamentali della persona, il riconoscimento «è istanza morale prima che
garanzia costituzionale». Non si potrebbe dire meglio. Ma si deve aggiungere
che nessuno può disinteressarsi di questo tema considerandolo affare di
altri. Intervistata dal New York Times, Martha Nussbaum ha detto: «Se mi
risposerò, sarò preoccupata del fatto che sto godendo di un privilegio
negato alle coppie dello stesso sesso». Anche la più intima tra le decisioni
non può farci distogliere lo sguardo dal vivere in società, dalla condizione
e dai diritti di ogni altra persona, lontana o vicina che sia. -
*STEFANO RODOTÀ*

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