di Massimo Tosti
Gli sputi restano gli applausi volano.
Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. poiché senza che avesse fatto
alcunché di male una mattina venne arrestato».
Per chi non l'avesse letto (o non lo ricordasse) questo è l'incipit di uno dei
romanzi più celebri (e belli) del XX secolo: Il processo, di Franz Kafka.
Scritto nel 1925, racconta esattamente quel che accadde cinquantotto anni
dopo (il 17 giugno 1983) a Enzo Tortora.
Alle quattro e un quarto del mattino bussarono alla
porta della camera dell'Hotel Plaza di Roma in cui alloggiava. La
perquisirono da cima a fondo (non tralasciando neppure un innocuo
salvadanaio a forma di porcellino), e lo tradussero (tanto per usare il
linguaggio consueto delle forze di polizia) nella sede romana del nucleo
operativo dei Carabinieri, in attesa che si facesse ora: l'ora giusta per
mostrarlo, manette ai polsi, a giornalisti e fotografi appositamente
convocati.
Di Tortora, poi, si seppe chi l'aveva calunniato: Pasquale Barra (detto "0'
animale") e Giovanni Pandico (definito «schizoide» nelle cartelle cliniche),
due pentiti della camorra, sedotti dai compensi che la giustizia offriva
loro in cambio di questi discutibili servizi. Ma la sciatteria delle
indagini sul suo conto, e la dura condanna in primo
grado (dieci anni di reclusione) costruita su un castello di testimonianze a
dir poco discutibili e di indizi inesistenti, rappresentano una pagina
vergognosa della giustizia italiana.
Rivolto ai giudici, Tortora disse in aula: «Io sono innocente. Spero, dal
profondo del mio cuore, che lo siate anche voi». Parole durissime che
meriterebbero di essere scritte nelle aule dei tribunali, accanto a una
massima - «La giustizia è uguale per tutti» spesso contraddetta dai fatti. A
vent'anni dalla morte di Tortora, il giornalista Vittorio Pezzuto ha dato
alle stampe un corposo volume (Applausi e sputi, Sperling & Kupfer, 522
pagine, 15 euro) che, nel sottotitolo («Le due vite di Enzo Tortora») rivela
il contenuto: una biografia densa e documentatissima, che racconta i grandi
successi professionali di un uomo colto e garbato, amatissimo dal pubblico
dei telespettatori, e lo strappo drammatico di una vicenda giudiziaria lunga
e dolorosa, che distrusse prima la sua immagine e minò poi la sua salute.
Ci fu sicuramente un legame fra quelle «due vite». I successi della prima
non avevano montato la testa di Tortora, che era un uomo modesto e
tranquillo, che non amava confondere la sua immagine pubblica con quella
privata, e che - per difendere le proprie idee e le proprie convinzioni
sapeva ricominciare da capo (come gli accadde due volte, all'inizio e alla
fine degli anni Sessanta, quando fu messo alla porta dalla Rai per aver
espresso giudizi ritenuti inopportuni e offensivi sulla gestione dell'ente),
inventandosi un nuovo mestiere il giornalismo - e dimostrando di saperlo
fare benissimo.
Lo conobbi personalmente all'epoca della strage di piazza Fontana: inviato
dalla Nazione di Firenze, scrisse in quell'occasione una serie di articoli
esemplari, da cronista di razza. Lui non si montò la testa, ma l'invidia e
la gelosia di molti colleghi (in tv e sui giornali) contribuirono a
demonizzarlo quando due pentiti lo accusarono delle peggiori nefandezze.
Enzo, innocente, pagò anche per questo per la rabbia di tante mezzecalze,
felici di vederlo sprofondare nella polvere, proprio nel momento (erano i
tempi di Portobello, la più fortunata fra le trasmissioni televisive da lui
condotte: ventisette milioni di spettatori a puntata) di maggior successo in
una carriera costellata di successi. Nonostante tutto, e nonostante tutti.
Lui che non apparteneva alla folta schiera dei raccomandati, lui che non
aveva padrini politici, e che era persino controcorrente rispetto ai
pensieri dominanti. Alla politica si affacciò nel momento della disgrazia,
accettando la candidatura al Parlamento europeo offertagli dal partito
radicale. Ma non utilizzò il cadreghino per evitare gli arresti domiciliari:
si dimise, e affrontò l'isolamento. Come politico (con addosso l'esperienza
da imputato condannato ingiustamente, e da recluso) si impegnò nella
campagna per la «giustizia giusta», che di lì a poco sarebbe sfociata nel
referendum sulla responsabilità civile dei magistrati per i loro errori
giudiziari (la decisione popolare fu poi stravolta dal Parlamento, nel clima
di sudditanza che accompagnò Tangentopoli) .
Per recensire compiutamente il libro di Pezzuto occorrerebbe disporre di
quasi quattrocentocinquan ta pagine, le stesse impiegate dall'autore per
raccontare la vicenda umana di Tortora: perché Applausi e sputi è una
cronaca senza fronzoli, tutta affidata al rigore dei dati di fatto, come
testimoniano i 15 mila documenti consultati e le 80 pagine di note. Uno
degli aspetti più inquietanti del libro è che - rileggendo (giorno per
giorno) quel che accadde a Tortora - si scopre come quella drammatica
esperienza non abbia insegnato nulla a nessuno. Anche all'epoca di Mani
pulite, la stampa montò (nella sua stragrande maggioranza) sul carro
giustizialista, ricomponendo la sinergia procure-giornali che aveva già
provocato guasti ed errori innegabili. Errare è umano, perseverare è
diabolico. Ma questo è un Paese che dimentica troppo facilmente, e che fa
della disinvoltura uno stile di vita.
...................
Il 15 settembre 1986 Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla Corte d’Appello di Napoli e i giudici smontano in tre parti le accuse rivolte dai camorristi, per i quali inizia un processo per calunnia: secondo i giudici, infatti, gli accusatori del presentatore - quelli legati a clan camorristici - hanno dichiarato il falso allo scopo di ottenere una riduzione della loro pena.
Altri, invece, non legati all'ambiente carcerario, avevano il fine di trarre pubblicità dalla vicenda: era, questo, il caso del pittore Giuseppe Margutti, il quale mirava ad acquisire notorietà per vendere i propri quadri.
Così, in una intervista concessa al programma La Storia siamo noi, in una puntata dedicata specificamente al caso Tortora, il giudice Michele Morello racconta il suo lavoro d’indagine che ha portato all’assoluzione del popolare conduttore televisivo:
« Per capire bene come era andata la faccenda, ricostruimmo il processo in ordine cronologico: partimmo dalla prima dichiarazione fino all’ultima e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera un po’ sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell’altro, che stava assieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri in Appello, facemmo circa un centinaio di accertamenti: di alcuni non trovammo riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell’imputato. Anche i giudici, del resto, soffrono di simpatie e antipatie... E Tortora, in aula, fece di tutto per dimostrarsi antipatico, ricusando i giudici napoletani perché non si fidava di loro e concludendo la sua difesa con una frase pungente: «Io grido: “Sono innocente”. Lo grido da tre anni , lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi.» » |
A distanza di vent'anni dalla morte del presentatore, sono ben pochi i
giornalisti che hanno ammesso le proprie colpe per aver messo alla gogna un
innocente. E quanto ai magistrati che si resero responsabili di un clamoroso
infortunio, sono stati tutti promossi. E' sufficiente leggere i loro nomi a
fianco degli incarichi che ricoprono oggi. Chiarendo che non si tratta di
omonimie o di refusi, come accadde nella maxiretata di venticinque anni fa,
quando finirono in carcere (fra gli 856 arrestati) un centinaio di persone
colpevoli soltanto di avere lo stesso cognome di presunti camorristi.
Non c'era Tortora (il più famoso) fra questi: «Non sono un omonimo - disse
amaramente - ma soltanto un refuso». Nell'agendina di un camorrista era
annotato accanto a un numero di telefono il nome di Enzo Tortona (non
Tortora), un imprenditore salernitano. Nessuno - neanche a dirlo - si
preoccupò di comporre quel numero per verificare a chi appartenesse.
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